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Decisioni CEDU vs. Governo italiano 2013

15 gennaio 2014, Ministero della giustizia

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Nel 2013 sono state 121 le decisioni della Corte EDU nei confronti del Governo Italiano: 34 di condanna per accertamento di violazione di diritti fondamentali, 32 di radiazione per accordo intervenuto, 52 di irricevibilità, 2 di rigetto (a cura del Ministero della giustizia, Dipartimento per gli Affari di Giustizia, Direzione Generale del Contenzioso e dei Diritti Umani, Ufficio II).

ANNO 2013

Nel corso del corrente anno la Corte Europea ha emesso ? alla data del 18 dicembre 2013 - n. 121 sentenze e decisioni nei confronti dello Stato italiano, che possono suddividersi in:
? n. 34 sentenze di condanna per violazione di articoli della Convenzione;
? n. 2 sentenze che dichiarano la non violazione della Convenzione;
? n. 1 decisione determinativa dell?equa soddisfazione, successiva all?emanazione della relativa sentenza principale che riconosceva la violazione dell?art.1 Protocollo 1 (diritto di proprietà) della Convenzione;
? n. 32 provvedimenti di radiazione dal ruolo in seguito a regolamento amichevole o dichiarazione unilaterale del Governo italiano (30) o per accertata carenza di interesse del ricorrente (2);
? n. 52 decisioni di irricevibilità, legate al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne o alla manifesta infondatezza dei motivi di ricorso o ancora all?abuso del diritto di ricorso individuale.

Con la presente nota si intende analizzare brevemente le sentenze della CEDU che hanno accertato la violazione della Convenzione da parte del Governo italiano, nonché alcune decisioni favorevoli o di irricevibilità emesse dalla Corte su questioni di particolare interesse o su aspetti rilevanti della nostra legislazione.
In via generale, non si riscontrano nel 2013 variazioni sensibili rispetto all?anno precedente, sia in relazione al numero complessivo di decisioni adottate nei riguardi dell?Italia (nel 2012 le sentenze emesse sono state 109) che in ordine a quelle di accertamento della violazione della Convenzione (35 nel 2012).
Risulta invece sensibilmente aumentato il numero dei ricorsi sulla eccessiva durata del processo definiti in via amichevole o con dichiarazione unilaterale del Governo italiano; in crescita anche le decisioni di irricevibilità dei ricorsi.
L'analisi dei casi più rilevanti viene eseguita seguendo la numerazione progressiva degli articoli della Convenzione.

ART. 2. Diritto alla vita.

Vi sono due casi in cui la Corte ha esaminato la possibile violazione dell?art. 2 da parte del Governo italiano. Il primo è la decisione De Santis e Olanda c. Italia del 9.7.2013. I ricorrenti deducevano la violazione del citato articolo in relazione alla vicenda della propria figlia (anch?essa ricorrente) la quale aveva contratto un?infezione in ospedale poco dopo la nascita che le aveva provocato lesioni cerebrali permanenti. I giudizi civili nazionali si erano conclusi con l?accertamento della responsabilità della struttura sanitaria, ma non dei medici (giencologo e pediatra) che si erano occupati della neonata. Sia i genitori che la figlia avevano comunque ottenuto il risarcimento dei danni subiti. Dinanzi alla CEDU i ricorrenti lamentavano, sotto l?aspetto dell?art.2, la violazione dell?obbligo procedurale di protezione del diritto alla vita e chiedevano la condanna del Governo italiano all?assistenza completa e gratuita della giovane per il resto della sua esistenza. I giudici europei, nel dichiarare il ricorso irricevibile, hanno ritenuto di non potersi sostituire alla magistratura italiana nella valutazione delle responsabilità di quanto occorso ed hanno considerato adeguato e sufficiente il risarcimento accordato dai giudici nazionali.
Nel caso Di Paolo e Benedetti c. Italia, definito con decisione di irricevibilità del 25.6.2013, la Corte ha respinto le doglianze dei ricorrenti sulle carenze investigative delle autorità italiane in ordine all?intervento chirurgico subito dal loro figlio minore, che aveva posto in serio rischio la vita del bambino. I giudici hanno rilevato che le indagini erano state avviate rapidamente ed erano state effettive, osservando come privo di censure appariva anche l?operato del giudice delle indagini preliminari, il quale aveva disposto l?archiviazione del procedimento con una ben motivata ordinanza, dopo aver ascoltato per due volte le parti in camera di consiglio

ART.3. Proibizione della tortura.

Di capitale importanza in relazione al tema del sovraffollamento carcerario è la sentenza Torreggiani e altri c. Italia, emessa in data 8.1.2013, che ha accertato la violazione dell?art. 3 della Convenzione.
Detta decisione - che si inquadra nella categoria delle sentenze pilota poiché volta ad affrontare il problema strutturale e sistemico del sovraffollamento negli istituti penitenziari italiani - origina dal ricorso di sette detenuti, ristretti presso gli istituti di Busto Arsizio e di Piacenza, i quali lamentavano di aver trascorso considerevoli periodi della loro detenzione in celle di 9 m2 condivise con altri due detenuti e di non aver potuto far uso regolarmente delle docce per penuria di acqua calda. Per l?istituto di Piacenza si aggiungeva, inoltre, la mancanza di luce sufficiente nelle celle a causa delle spesse sbarre poste alle finestre.
La Corte ha osservato che l'essere sottoposto a misure privative della libertà personale, se comporta senz'altro degli inconvenienti, non fa comunque perdere al detenuto il beneficio dei diritti garantiti dalla Convenzione. In tale contesto, e richiamando la propria precedente giurisprudenza, ha quindi affermato che l?articolo 3 pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell?assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l?interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d?intensità che ecceda l?inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente. In particolare, ha espressamente chiarito che quando il sovraffollamento carcerario raggiunge un certo livello, la mancanza di spazio in un istituto penitenziario può costituire l?elemento centrale da prendere in considerazione nella valutazione della conformità di una data situazione all?articolo 3 della Convenzione. La Corte ha quindi ritenuto ? da un lato perché non contestato dal Governo italiano, come nel caso del carcere di Busto Arsizio, dall?altro perché, se anche contestato, comunque non adeguatamente provato, come nel caso del carcere di Piacenza - di poter assumere per vero che tutti i ricorrenti avessero potuto disporre di uno spazio vitale individuale di 3 m2, come tale non conforme ai criteri di accettabilità posti sia dai rapporti del CPT (Comitato prevenzione della Tortura) sia dalla propria giurisprudenza. Tali condizioni di disagio e sofferenza si considerano ulteriormente aggravate dalla mancanza di acqua calda e di luce sufficiente.
Una volta rilevato il carattere strutturale e sistemico del sovraffollamento carcerario in Italia, secondo quanto emerge chiaramente dai dati statistici forniti dalla stesso Governo italiano (che ha rappresentato un tasso nazionale di sovraffollamento del 151% nel 2010, ridottosi solo al 148% nel 2012), si giustifica l?applicazione nel caso di specie della procedura della sentenza pilota.
Dopo aver premesso che non spetta alla Corte suggerire agli Stati disposizioni riguardanti le loro politiche penali e l?organizzazione del loro sistema penitenziario, i giudici europei hanno tuttavia precisato di essere colpiti dal fatto che il 40% circa dei detenuti nelle carceri italiane siano persone sottoposte a custodia cautelare in attesa di giudizio e rammentato le raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d?Europa che invitano gli Stati membri e le loro autorità giudiziarie a ricorrere il più possibile a misure alternative alla detenzione e a riorientare la politica penale verso il minimo ricorso alla carcerazione.
In ordine alle vie di ricorso interne da adottare per far fronte al problema sistemico riconosciuto nella presente causa, la Corte rammenta che, in materia di condizioni detentive, i rimedi «preventivi» e quelli di natura «compensativa» devono coesistere in modo complementare. Così, quando un ricorrente sia detenuto in condizioni contrarie all?articolo 3 della Convenzione, la migliore riparazione possibile è la rapida cessazione della violazione del diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti. Inoltre, chiunque abbia subito una detenzione lesiva della propria dignità deve potere ottenere una riparazione per la violazione subita. Il reclamo al magistrato di sorveglianza di cui agli artt. 35 e 69 L. 354/75, viene ritenuto un ricorso accessibile, ma non effettivo nella pratica, dato che non consente di porre fine rapidamente alla carcerazione in condizioni contrarie all?articolo 3 della Convenzione. La Corte quindi conclude che le autorità nazionali devono creare senza indugio un ricorso o una combinazione di ricorsi che abbiano effetti preventivi e compensativi e garantiscano realmente una riparazione effettiva delle violazioni della Convenzione risultanti dal sovraffollamento carcerario in Italia. Tali ricorsi dovranno essere posti in essere nel termine di un anno dalla data in cui la sentenza in esame sarà divenuta definitiva.
In attesa dell?adozione da parte delle autorità interne delle misure necessarie sul piano nazionale, l?esame dei ricorsi non comunicati aventi come unico oggetto il sovraffollamento carcerario in Italia è stato rinviato per il periodo di un anno a decorrere dalla data in cui la presente sentenza è divenuta definitiva (27 maggio 2013).

Per ottemperare al dettato della sentenza Torreggiani, il Ministero della Giustizia ha elaborato e presentato a Strasburgo un Piano d?azione, che si articola in quattro punti fondamentali:
1) Strumenti di natura normativa di ulteriore riduzione del numero dei detenuti nelle carceri italiane, sia attraverso una contenimento degli ingressi, sia attraverso l?adozione di misure alternative alla detenzione che accompagnino il ritorno del detenuto alla comunità esterna (depenalizzazione o riduzione della pena, limitazione della custodia cautelare in carcere, ampliamento delle misure alternative)
2) Interventi volti a rendere la detenzione più libera all?interno del perimetro carcerario per i detenuti di media e bassa sicurezza, con maggiori opportunità di attività giornaliere, lavoro, formazione, contatti con il mondo esterni
3) Interventi in materia di edilizia carceraria, con nuove edificazioni nonché ristrutturazioni del patrimonio esistente, volte a creare 4.500 nuovi posti entri il maggio 2014
4) Misure risarcitorie per chi ha sofferto di trattamenti contrari all?art. 3 e abbia presentato ricorso alla Corte di Strasburgo, mediante la concessione di benefici penitenziari, ovvero sconti di pena.

La recente approvazione del Decreto legge n. 146/2013, recante ?Misure urgenti in teme di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria?, costituisce un primo e essenziale passo verso la soluzione del problema del sovraffollamento carcerario ed avrà certamente un impatto positivo sulle prossime valutazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d?Europa, organo deputato a vegliare sull?esecuzione delle decisioni CEDU.

Anche la decisione di irricevibilità del 5.3.2103 nel caso Tellissi c. Italia affronta il tema delle condizioni di detenzione, sotto due profili: da un lato la somministrazione di cure adeguate allo stato di salute del ricorrente, dall?altro lo spazio personale goduto in cella dal ricorrente.
Sotto il primo aspetto la Corte, preso atto della patologia presentata dal ricorrente (rottura dei legamenti crociati del ginocchio destro) con necessità di un duplice intervento chirurgico e di terapia di recupero articolare, ha rilevato come, nonostante alcuni ritardi, le autorità abbiano soddisfatto il loro obbligo di proteggere l'integrità fisica del ricorrente tramite la somministrazione dei controlli medici appropriati. Pertanto, il trattamento di cui il ricorrente è stato oggetto non ha oltrepassato in modo significativo il livello inevitabile di sofferenza inerente alla detenzione. Sotto il secondo aspetto la Corte ha osservato che, alla luce delle informazioni fornite dal Governo e non contestate dal ricorrente, l'interessato è stato sistemato in celle la cui superficie è di 11 m², occupandole per periodi da solo o in compagnia di altro detenuto. Solo per due periodi di una anno circa ciascuno, ha condiviso la cella con altri due detenuti, il che porta alla fruizione di una spazio personale di 3,6 mq. Benché inferiore allo spazio ritenuto auspicabile dal CPT per le celle collettive (4 m²), questo spazio personale non era inferiore a 3 m² e dunque secondo la giurisprudenza della Corte non può da solo costituire una violazione dell'articolo 3 della Convenzione. Quanto alle ulteriori circostanze della asserita mancanza di luce, illuminazione, riscaldamento, acqua calda e materiale per l?igiene, la Corte ha ritenuto le stesse non idonee ad integrare un trattamento contrario all'articolo 3.

Sempre in tema di articolo 3 della Convenzione va menzionata l?importante decisione di parziale irricevibilità del ricorso Riina c. Italia.
I motivi di ricorso proposti attengono all?asserita violazione degli artt. 3 e 8 della Convenzione. In particolare il ricorrente lamenta, sotto il profilo del divieto di trattamenti inumani o degradanti (art. 3), l?applicazione nei suoi confronti del regime di detenzione speciale di cui all?art. 41 bis della legge 354/75, con dirette ripercussioni sul suo stato di salute, nonché l?illuminazione notturna della cella. Sotto il profilo del diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8), lamenta l?insufficiente frequenza delle visite, l?impedimento di contatti fisici con le persone che vanno a trovarlo per la presenza di un vetro divisorio nella sala colloqui, il controllo della corrispondenza. Con riferimento ad entrambi i profili lamenta la videosorveglianza costante nella cella e nel bagno.
Tutte le richiamate doglianze, con la sola eccezione di quella relativa alla videosorveglianza costante (per la quale vi è stata comunicazione del ricorso al Governo italiano per le eventuali osservazioni), sono state ritenute infondate dalla Corte.
Sul piano del regime speciale di detenzione di cui all?art. 41 bis, la Corte rammenta di avere esaminato il predetto regime in più occasioni e di averlo giudicato compatibile con la Convenzione. Se, in generale, la prolungata applicazione di alcune restrizioni può porre un detenuto in una situazione che potrebbe costituire un trattamento inumano o degradante, tuttavia la Corte afferma di non poter prendere in considerazione una durata precisa per stabilire il momento a partire dal quale è raggiunta la soglia minima di gravità per l?applicazione dell?articolo 3. Al contrario, la durata deve essere esaminata alla luce delle circostanze di ogni caso di specie, il che implica in particolare di verificare se il rinnovo e la proroga delle restrizioni in questione fossero giustificati o meno. Nel caso di specie, non avendo il ricorrente prodotto alcuno dei provvedimenti di applicazione o proroga del regime in questione, la Corte conclude che non sono stati forniti dall?interessato elementi tali da consentirle di concludere che la proroga di tali restrizioni non era manifestamente giustificata. L?illuminazione della cella durante tutta la notte, a sua volta, costituisce una modalità che, non abbinandosi ad un isolamento sensoriale completo, non è idonea ad integrare un trattamento inumano o degradante.
Quanto alle restrizioni alla vita privata e familiare, la Corte osserva che, tenuto conto della natura specifica del fenomeno della criminalità organizzata di tipo mafioso, e del fatto che molto spesso le visite familiari hanno consentito la trasmissione di ordini e istruzioni verso l?esterno, la disciplina delle visite e i controlli che ne accompagnano lo svolgimento non possono essere considerati sproporzionati agli scopi legittimi perseguiti. Anche per il controllo della corrispondenza, la Corte ha rilevato non essere stati presentati elementi specifici in grado di dimostrare che detto controllo sia avvenuto al di fuori delle condizioni poste dal secondo paragrafo dell?art. 8 della Convenzione.

La decisione di irricevibilità emessa nel caso Rosmini c. Italia, pur non concernendo la possibile violazione dell?art. 3 della Convenzione, merita di essere citata assieme alle precedenti trattandosi di ricorso che verteva in materia di trattamento carcerario.
Rosmini, condannato all?ergastolo per associazione per delinquere di stampo mafioso, era stato assegnato dall?amministrazione penitenziaria al circuito ad elevato indice di vigilanza (E.I.V.) per la sua ritenuta pericolosità, e ciò nonostante l?avvenuta dissociazione del predetto dall?organizzazione criminale di appartenenza. Il magistrato di sorveglianza, accogliendo il reclamo del detenuto, non potendo annullare il provvedimento dell?amministrazione penitenziaria, ne aveva disposto la disapplicazione. Il ricorrente era tuttavia rimasto in assegnazione al circuito E.I.V., e dopo la soppressione di questo, al circuito Alta Sicurezza di livello 1 (A.S.1), in quanto all?Amministrazione Penitenziaria risultava il suo perdurante legame con l?organizzazione criminale di appartenenza.
Il Rosmini aveva presentato ricorso alla Corte di Strasburgo lamentando la violazione dell?art. 6 (per non aver potuto disporre di alcuna tutela giurisdizionale contro il provvedimento di inserimento nel circuito E.I.V.) e dell?art. 13 (non essendo previsti ricorsi efficaci per contestare il medesimo provvedimento di assegnazione al circuito E.I.V.).
La Corte ? dopo aver precisato, sulla scorta della giurisprudenza fissata nel caso Enea c. Italia, che la citata norma può applicarsi con riguardo al contenzioso penitenziario solo per il profilo civile e non per quello penale (non venendo in causa un problema di fondatezza di un?accusa penale) - ha ritenuto manifestamente infondata l?asserita violazione dell?art. 6, in quanto l?assegnazione di un detenuto a questo o quel tipo di circuito penitenziario non comporta di per sé limitazione dei suoi diritti civili. Ove in concreto venisse riscontrata una siffatta limitazione, questa dovrebbe formare oggetto ricorso al giudice di sorveglianza. Il ricorrente tuttavia non aveva fornito alcuna indicazione specifica in tema di concreta lesione dei propri diritti civili. La Corte ha poi ritenuto il secondo motivo di ricorso assorbito dal primo, rispondendo l?art. 6 ad esigenze più severe di quelle che si intende soddisfare con l?art. 13.

Vi sono state due decisioni riguardanti l?adeguatezza delle cure mediche prestate durante la detenzione.
La sentenza Cirillo c. Italia ha accertato la violazione dell?art. 3 della Convenzione.
Il ricorrente, affetto da una patologia (paralisi subtotale del plesso branchiale sinistro, associata ad una grave limitazione funzionale, provocata da un proiettile di arma da fuoco), per la quale necessitava di cicli di kinesiterapia ed elettrostimolazione, lamentava che, nonostante le raccomandazioni dei medici che avevano prescritto cure costanti, egli aveva potuto beneficiarne solo in modo sporadico, con progressivo deterioramento delle sue condizioni fisiche.
La Corte, premettendo l?inapplicabilità nei casi riguardanti i detenuti del normale principio affirmanti incumbit probatio, stante la posizione di vulnerabilità legata alla condizione di detenzione, ha ritenuto poter desumere dagli atti che il ricorrente aveva effettivamente beneficiato di un numero di sedute di kinesiterapia (10 nel 2010 e 20 nel 2011) insufficienti ad affrontare adeguatamente la sua patologia. Pur non sottovalutando la difficoltà per l?amministrazione di garantire alle persone detenute delle cure specializzate intensive e regolari, specie in condizioni di sovraffollamento, ha sottolineato come le carenze strutturali non dispensino lo Stato dai suoi obblighi verso i detenuti malati. Nel caso di specie ha quindi concluso che le Autorità sono venute meno al loro dovere di assicurare al ricorrente un trattamento medico adeguato alla sua patologia, condannando lo Stato al pagamento del danno morale subito dal ricorrente.

Nel caso Prestieri c. Italia la Corte ha invece ritenuto adeguate le cure mediche prestate al detenuto ed ha emesso decisione di irricevibilità del ricorso.
Il ricorrente, affetto da grave patologia cardiaca e in attesa di un trapianto di cuore, si trovava detenuto presso il carcere di Napoli Secondigliano in esecuzione di una custodia cautelare. In ragione delle compromesse condizioni fisiche, che richiedevano controlli medici costanti e potevano dar luogo all?insorgere di emergenze cardiovascolari e cerebrovascolari con necessità di ricovero immediato, il Prestieri chiese la sostituzione della custodia in carcere con gli arresti domiciliari, richiesta che venne rigettata due volte dal Gip sulla scorta di perizie mediche che attestavano la compatibilità delle condizioni di salute con lo stato detentivo.
Successivamente al trapianto, eseguito il 30.4.2010, il ricorrente rinnovò la richiesta di revoca della custodia cautelare, in ragione delle particolari esigenze riabilitative, terapeutiche, alimentari, di serenità psicologica e di permanenza in ambienti sterili, connesse con il post-trapianto. Pur essendo stato autorizzato alla degenza presso centri medici specializzati scelti dal ricorrente con obbligo di sorveglianza e scorta della Polizia, a causa della indisponibilità di posti, egli era stato di fatto ricoverato presso l?ospedale Caldarelli di Napoli fino al 2.12.10, quando fece ritorno nel carcere di Napoli Secondigliano. Il periodo di maggiore criticità per il rischio di rigetto post-trapianto, pari a 6 mesi, era ormai trascorso e le sue richieste di revoca della detenzione furono rigettate, anche alla luce di perizie mediche che attestavano nuovamente la compatibilità dello stato di salute con l?ambiente carcerario..
Il Prestieri fece quindi ricorso alla Corte di Strasburgo, lamentando la violazione dell?art. 3 per non aver ricevuto cure adeguate alle sue condizioni di salute ed essere stato mantenuto in stato detentivo nonostante le stesse.
La Corte, richiamata la propria giurisprudenza secondo cui l?articolo 3 della Convenzione impone in ogni caso allo Stato di tutelare l?integrità fisica delle persone private della libertà, ha concluso che nel caso di specie non vi era stata alcuna violazione della citata norma. Da un lato, infatti, la grave patologia era precedente allo stato detentivo e non insorta a causa di quest?ultimo; dall?altro, dopo il trapianto, era stata assicurata la degenza in struttura ospedaliera per il periodo di maggior rischio. Successivamente a tale periodo, la detenzione in ambiente carcerario era stata ripristinata alla luce di pareri medici, venendo comunque somministrate le cure mediche necessarie.
Le quatro decisioni di irricevibilità nei casi Mohammed Hussein c. Olanda e Italia, Miruts Hagos c. Olanda e Italia, , Mohammed Hassan e altri c. Olanda e Italia, Hussein Dirshi e altri c. Olanda e Italia concernono alcuni cittadini provenienti dal Corno d?Africa, richiedenti asilo dopo essere giunti illegalmente in Italia e successivamente recatisi nei Paesi Bassi, dove formularono una nuova domanda di asilo. La richiesta venne tuttavia rigettata dalle autorità olandesi in applicazione del cd. regolamento Dublino, che attribuisce la gestione della posizione degli immigrati al primo paese di ingresso nell'UE, nel caso di specie l?Italia. I ricorrenti lamentavano dinanzi alla CEDU la violazione dell?art.3, per essere stati sottoposti a trattamenti degradanti durante la loro permanenza nei centri di accoglienza italiani e perché il loro trasferimento in Italia li avrebbe esposti al pericolo di nuovi trattamenti degradanti nonché di essere rimpatriati nei paesi di origine. Con le decisioni in esame ? significativa quella Mohammed Hussein c. Italia per l?accurata analisi della procedura di asilo e del sistema italiano di accoglienza - la Corte ha dichiarato che i ricorrenti non hanno subito alcun trattamento contrario all'art. 3 CEDU mentre si trovavano in Italia; né rischierebbero di subirne nel caso in cui vi fossero ricondotti ai sensi del regolamento Dublino. La Corte riconosce infatti che il sistema italiano di ricezione dei richiedenti asilo soffre di alcuni difetti, ma ritiene che essi non integrino trattamenti contrari alle garanzie convenzionali.
Le decisioni di irricevibilità sui casi Halimi c. Austria e Italia, Abubeker c. Austria e Italia risultano sostanzialmente conformi alle precedenti.
ART.5. Diritto alla libertà e alla sicurezza.

Vi è una decisione di irricevibilità per mancato esaurimento delle vie di ricorso interno nel caso Azenabor c. Italia. La ricorrente era stata sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio con provvedimento adottato dal Sindaco e convalidato dal giudice tutelare, malgrado questi non si fosse recato in ospedale per ascoltare la donna e verificare le sue condizioni di salute. L?impugnazione del provvedimento era stata rigettata dal giudice civile e la Azenabor aveva adito la Corte EDU lamentando la violazione dell?art.5 per essere stata privata irregolarmente della libertà. I giudici europei hanno osservato che il giudice tutelare avrebbe dovuto accertarsi o far verificare le condizioni della donna, tuttavia, considerato che questa non aveva proposto ricorso per cassazione avverso il provvedimento del giudice tutelare, hanno considerato il ricorso irricevibile per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne.

Altra decisione di irricevibilità concerne il caso Monno c. Italia. Il ricorrente lamentava la violazione degli artt. 5 e 13 della Convenzione in relazione all?asserita illegittima sua sottoposizione alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e all?inesistenza a livello nazionale di un sistema di riparazione economica del pregiudizio subito. Il Monno, infatti, sottoposto alla citata misura dal Tribunale per un periodo di due anni, aveva presentato appello e ottenuto dopo otto mesi la declaratoria di cessazione di efficacia della misura a causa di un vizio procedurale riscontrato dai giudici di secondo grado. La Corte ha in primo luogo ritenuto come la doglianza dovesse essere esaminata sotto l?aspetto dell?art.2 del Protocollo n. 4, che tutela la libertà di circolazione, rilevando come la misura di prevenzione non abbia comportato restrizioni alla libertà personale. Nel merito, ha osservato che la misura di prevenzione doveva considerarsi legittima fino al momento della pronuncia della Corte di appello e che la stessa aveva avuto un?applicazione concreta inferiore a quanto previsto dai giudici di primo grado. Per tali ragioni, i giudici europei hanno ritenuto che non vi sia stata nel caso di specie rottura del giusto equilibrio tra l?interesse generale e i diritti dell?individuo.

ART.6. Diritto a un equo processo.

Il problema della eccessiva durata dei giudizi italiani continua ad essere l?oggetto principale delle attenzioni della Corte Europea, che anche nel 2013 ha emesso numerose pronunce di condanna del nostro paese.
Lo scorso anno i giudici europei avevano sollecitato un intervento del Governo Italiano su questo problema, e in particolare sui ritardi nel pagamento degli indennizzi Pinto, ricordando che le autorità nazionali hanno il dovere di munirsi di tutti i mezzi adeguati e sufficienti che permettano di garantire il rispetto degli obblighi che incombono sulle stesse in virtù dell?adesione alla Convenzione. Tutto ciò anche al fine di evitare che il ruolo della Corte venga intasato da un numero eccessivo di ricorsi ripetitivi, riguardanti gli indennizzi accordati dalle corti di appello nell?ambito dei procedimenti Pinto.
Seguendo le indicazioni della Corte, con l?obiettivo di ridurre il contenzioso esistente a Strasburgo, il Governo italiano ha predisposto un Piano di Azione della durata di due anni a partire dal settembre 2012 che dovrebbe portare all?eliminazione di oltre 7.000 ricorsi sull?eccessiva durata dei giudizi pendenti dinanzi alla CEDU.
Sulla scorta della sentenza Gaglione e altri c. Italia del 21.12.2010, si è concordata con la Cancelleria della Corte la possibile definizione con regolamento amichevole dei 7.000 ricorsi mediante l?offerta di una somma forfettaria di euro 200 a ciascun ricorrente, oltre alle spese legali.
Il Piano di Azione, in cui è coinvolto oltre a questo Dicastero, anche il Ministero della Economia e Finanze, è in corso di attuazione.

La collaborazione instauratasi tra il Governo italiano e la Corte sulle questioni Pinto ha avuto influenza positiva anche sulle pronunce di condanna dei giudici di Strasburgo sui ricorsi per eccessiva durata dei giudizi nazionali (civili, penali, amministrativi o ?Pinto?) e/o per ritardato pagamento dell?indennizzo ex legge Pinto; deve, infatti, registrarsi una diminuzione delle decisioni che hanno accertato la violazione dell?art. 6 della Convenzione nell?anno 2013. I dodici accertamenti della violazione (Iannelli c. Italia, Angelo Caruso c. Italia, Galasso e altri c. Italia, Corrado e altri c. Italia, Gagliardi c. Italia, Fiocca c. Italia, Mercuri c. Italia, Ascierto e Buffolino c. Italia, Bencivenga e altri c. Italia, Francesco Quattrone c. Italia, Maffei e De Nigris c. Italia, Limata e altri c. Italia) non comunque comportato esborsi particolarmente rilevanti per il Governo italiano.
Con riferimento al caso Francesco Quattrone c. Italia va segnalato che i giudici hanno rilevato la violazione dell?art. 6 della Convenzione non soltanto in relazione alla eccessiva durata della procedura Pinto, ma anche per la parte concernente le spese liquidate dalla Corte di cassazione e poste a carico del ricorrente nella pronuncia definitoria del giudizio Pinto. Strasburgo ha ritenuto che la Suprema Corte non abbia motivato sul punto, contravvenendo al principio sancito dall?art. 6 in tema di motivazione delle decisioni giudiziarie. Di segno opposto invece la decisione parziale di irricevibilità Valle Pierimpié società agricola S.p.A. c. Italia, ove i giudici europei hanno ritenuto che la decisione di rigetto del ricorso della Corte di cassazione fosse adeguatamente motivata e rispettasse le esigenze indicate all?art. 6 della Convenzione.

Sempre in relazione all?art. 6 CEDU, particolare rilievo assumono le sentenze Plesic c. Italia e Anghel c. Italia.
Il caso Plesic ha ad oggetto una pretesa violazione del diritto ad un processo equo per avere la Corte di appello e la Corte di cassazione celebrato l'udienza in assenza dell'avvocato di fiducia della ricorrente. In particolare, la ricorrente, condannata in primo grado per circonvenzione di incapace, aveva nominato due difensori per l'appello. Il giorno prima dell'udienza li aveva però revocati nominando un nuovo difensore, il quale aveva rinunciato al mandato. Il processo era stato perciò rinviato. Alla nuova udienza, la corte d'appello aveva nominato un difensore d'ufficio, che aveva richiesto un termine a difesa per studiare le carte processuali. Era stata quindi fissata una nuova udienza per la trattazione, ma il giorno prima di quest'ultima, la ricorrente aveva dichiarato che intendeva revocare il difensore d'ufficio e nominare un nuovo difensore di fiducia, il quale aveva bisogno di un rinvio del processo per studiare il fascicolo. Malgrado la richiesta, la Corte d'appello, alla presenza del difensore di ufficio, aveva celebrato il processo, confermando la sentenza di condanna emessa in primo grado. Il giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione si era concluso con il rigetto del ricorso presentato dalla Plesic, nonostante l'assenza del suo avvocato di fiducia, che aveva aderito ad un'astensione degli avvocati.
La Corte di Strasburgo ? nel dichiarare il ricorso irricevibile - ha ritenuto che nelle particolari circostanze del caso di specie, la decisione presa dalla corte d?appello non potesse essere considerata arbitraria. La Corte ha osservato in proposito che i giudici nazionali devono tener conto del diritto a una sentenza in un tempo ragionevole e della necessità che ne deriva di un trattamento rapido delle cause iscritte a ruolo. D?altra parte l?avvocato d'ufficio nominato dalla corte d'appello aveva avuto a sua disposizione un tempo sufficiente (due mesi e venti giorni) per prendere confidenza con il fascicolo della ricorrente, che non presentava una particolare complessità. Egli risultava perciò in grado di garantire un?adeguata difesa.
Per quanto riguarda l?assenza dell?avvocato della ricorrente all?udienza dinanzi alla Corte di Cassazione, la Corte ha osservato che l?avvocato nominato dalla ricorrente sapeva o avrebbe dovuto sapere che l'adesione alle astensioni non comporta il rinvio automatico del procedimento e che la Corte di Cassazione avrebbe potuto giudicare la causa in sua assenza. Nel diritto italiano, infatti, la presenza di un avvocato nell?udienza in cassazione non è indispensabile.

Il caso Anghel ha anch?esso ad oggetto l?asserita violazione del diritto ad un equo processo, questa volta però sotto il profilo della mancata prestazione di un?assistenza legale tale da garantire in modo effettivo l?accesso alla fase di impugnazione. Il ricorrente, cittadino rumeno, si era rivolto alle competenti autorità rumene per ottenere, ai sensi all?art. 7 della Convenzione de L?Aia del 1980, che il proprio figlio minore, condotto dalla madre in Italia, fosse riportato in Romania. Il Tribunale dei minorenni di Bologna aveva rigettato la richiesta e tale decisione era stata portata a conoscenza del ricorrente. Questi, per il tramite del Ministero della Giustizia rumeno, una volta ottenute le necessarie informazioni sui mezzi di impugnazione esperibili contro la predetta decisione e sulla possibilità di avvalersi del patrocinio a spese dello Stato, aveva richiesto l?assistenza di un difensore per proporre ricorso per Cassazione. Il primo difensore individuato dallo stesso ricorrente il 6.5.2008 nell?ambito dell?elenco fornitogli dal Consiglio dell?ordine, impiegò 6 settimane per visionare il fascicolo e comunicò poi nelle due settimane successive al ricorrente di non poter patrocinare dinanzi alla Corte di Cassazione. Il ricorrente dovette quindi effettuare la scelta di un nuovo difensore sulla base di un nuovo elenco trasmessogli dal Consiglio dell?Ordine. Il secondo difensore, erroneamente, dichiarò essere ormai spirato il temine per proporre ricorso, quando in realtà vi erano ancora due settimane utili. Ciò aveva determinato di fatto la mancata impugnazione della decisione del Tribunale dei Minorenni di Bologna sfavorevole al ricorrente.
La Corte - dopo aver richiamato la propria giurisprudenza secondo cui la Convenzione non impone agli Stati di istituire un grado di appello, ma quando questo è previsto dalle normative interne, grava sugli Stati l?obbligo di fornire i mezzi che garantiscano l?accesso effettivo a tale grado di giurisdizione - ha osservato che le autorità italiane si erano rese responsabili di eccessivi ritardi nella comunicazione dell?esito del giudizio e delle informazioni necessarie al ricorrente per decidere di impugnare la decisione. Inoltre, tali informazioni risultavano contraddittorie e lacunose soprattutto con riferimento al termine di decadenza per proporre ricorso per Cassazione.
La Corte ha quindi concluso per la violazione dell?art. 6 della Convenzione da parte del Governo italiano, considerato che i ritardi e le mancanze delle autorità nazionali nel fornire una guida puntuale e corretta sui rimedi esperibili e una assistenza tecnica effettiva e adeguata, avevano vanificato nella sua essenza il diritto del ricorrente ad accedere ai mezzi di impugnazione contro una decisione a lui sfavorevole, nonostante gli sforzi dal medesimo posti in essere.

Interessante appare la tematica affrontata dalla decisione di irricevibilità Fazio e altri c. Italia del 18.6.2013. I quattro ricorrenti, esponevano che, dopo la morte dei loro danti causa, avevano intentato una procedura Pinto in relazione alla durata eccessiva di un procedimento civile che aveva coinvolto i loro genitori, ma nel quale non si erano costituiti. I giudici nazionali avevano parzialmente accolto la loro domanda iure hereditatis, ma avevano rigettato la richiesta iure proprio, in considerazione della loro mancata partecipazione al procedimento di cui lamentavano l?eccessiva durata. Invocando l?art. 6, i ricorrenti denunciavano alla Corte il mancato accoglimento della domanda iure proprio. I giudici di Strasburgo hanno rilevato che la qualità di erede di una parte in un procedimento civile non conferisce automaticamente il diritto a considerarsi vittima della durata eccessiva del medesimo e che l?interesse dell?erede alla conclusione rapida e favorevole di un procedimento si concilia difficilmente con la mancata costituzione nello stesso, dato che solo attraverso l?intervento nel procedimento l?avente diritto ha l?opportunità di partecipare pienamente e di influire sull?esito dello stesso.

Le due decisioni di condanna per violazione dell?art. 6 nei casi Natale e altri c. Italia e Casacchia e altri c. Italia si inquadrano invece nel filone di condanne per aver alterato l'equità del processo, violando il principio della parità delle armi attraverso un intervento legislativo con effetti retroattivi. Si tratta di casi analoghi a quello della nota sentenza Arras e altri c. Italia, del 14.2.2012, relativa alla vicenda pensionistica degli ex dipendenti del Banco di Napoli, i quali avevano subito un mutamento peggiorativo del loro regime pensionistico a seguito degli effetti retroattivi dell'art. 1, comma 55 della legge 243/2004. La Corte ha portato a conoscenza il Governo italiano della pendenza di circa 900 ricorsi di analogo tenore, invitando a considerare l?ipotesi di una soluzione transattiva con i ricorrenti.
Da ultimo, si segnalano le pronunce di irricevibilità Cavaliere c. Italia e Migliore c. Italia, in cui giudici hanno ritenuto che i ricorrenti, difesi dall'Avv. Marra, avessero abusato del loro diritto, presentando più ricorsi (nazionali e dinanzi alla CEDU) in relazione alla medesima vicenda processuale nazionale e fornendo alla Corte informazioni incomplete e fuorvianti (in termini analoghi, la decisione di irricevibilità Mollacco e altri c. Italia, dato che i ricorrenti avevano omesso di comunicare alla Corte l?avvenuta soddisfazione del loro credito).
La Corte ha infine emesso trenta decisioni di radiazione dal ruolo su un consistente numero di ricorsi in cui era stata dedotta la violazione dell?art. 6 della Convenzione. Si tratta di casi in cui i giudici hanno preso atto del raggiungimento di un regolamento amichevole tra le parti o della dichiarazione unilaterale del Governo italiano ai sensi dell?art. 62 A del Regolamento della Corte. In tutte le decisioni la somma concessa a titolo di indennizzo per ciascun ricorrente è stata di 200 euro, in conformità alla giurisprudenza CEDU (secondo la già citata sentenza Gaglione c. Italia del 21.12.2010).

ART.7. Nulla poena sine lege.

Di estrema rilevanza per i contenuti e per le ricadute sul nostro ordinamento è la sentenza Varvara c. Italia, del 29.10.2013, con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha ritenuto che l'applicazione della sanzione della confisca urbanistica nelle ipotesi di proscioglimento per estinzione del reato costituisca una violazione del principio di legalità sancito dall'art. 7 CEDU. La vicenda processuale italiana è piuttosto lunga e complessa e si è conclusa - dopo ben due annullamenti con rinvio da parte della Corte di Cassazione - con la sentenza della Suprema Corte, III penale n. 37274/08 dell?11.6.2008, che ha rigettato il ricorso avverso la sentenza del 23.3.2006 della Corte di appello di Bari, che aveva dichiarato l'estinzione del reato di lottizzazione abusiva ascritto al Varvara per intervenuta prescrizione. Va rilevato preliminarmente che la CEDU non ha riconosciuto lo sforzo interpretativo effettuato dalla giurisprudenza italiana dopo la decisione Sud Fondi e non ha, nel caso di specie, riconosciuto valore al fatto che la Corte di appello di Bari e la Corte di cassazione, nel riconoscere la causa di estinzione del reato, si erano correttamente poste il problema della colpevolezza del ricorrente ed avevano in motivazione dato conto della sussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo del reato di lottizzazione.
La CEDU ha risolto rapidamente la questione della qualificazione giuridica della confisca urbanistica prevista dall'art. 44 del d.lgs. 380/2001, richiamando la decisione di ricevibilità del 30.8.2007 nel caso Sud Fondi c. Italia, relativo agli ecomostri di Punta Perotti, ove aveva rilevato che la sanzione prevista dall'art. 19 della legge n. 47/1985 non tende alla riparazione pecuniaria di un danno, ma mira essenzialmente a punire al fine di impedire la reiterazione delle inosservanze previste dalla legge e che la confisca, colpendo anche i terreni non costruiti, ha finalità in parte preventiva e in parte repressiva, quest'ultima generalmente caratteristica distintiva delle sanzioni penali. Tenuto conto di tali elementi, la Corte aveva ed ha ritenuto che la confisca debba considerarsi sanzione penale ai sensi dell'art. 7 della Convenzione. Il ragionamento dei giudici europei nella decisione Varvara prosegue con la constatazione che l'art. 7 CEDU non richiede soltanto l?esistenza di una base legale per i reati e per le pene, ma comporta altresì l'illegittimità dell'applicazione di sanzioni penali per fatti commessi da altri o, comunque, non fondata su di un giudizio di responsabilità contenuto in un ?verdict de culpabilité?. Ne consegue che l'applicazione della confisca urbanistica in assenza di condanna (intesa come sanzione penale) risulta incompatibile con quest'ultimo corollario e comporta una violazione dell?art 7 della Convenzione.
La CEDU ha anche accertato la violazione dell'art. 1 Protocollo n. 1 sotto il profilo dell?ingerenza ingiustificata nel godimento dei beni mediante una sanzione arbitraria, poiché priva di una base legale (nel senso dell?art. 7 della Convenzione).
La decisione non è ancora definitiva e si sta valutando l?opportunità di richiedere il rinvio alla Grande Camera, rinvio sollecitato anche nell?opinione separata dell?unico giudice dissenziente, il portoghese Pinto de Albuquerque, che contiene molti spunti di riflessione sulle finalità della confisca e sulla sua disciplina nell?ambito dell?Unione Europea.
Si rileva che, in ogni caso, la medesima questione dovrà comunque essere nuovamente affrontata dalla CEDU nel prossimo futuro, poiché sono già stati comunicati tre casi del tutto analoghi al ricorso Varvara.
Non va sottaciuto come la sentenza emessa dalla Corte metta sin da ora in discussione non solo il meccanismo della confisca urbanistica ma, indirettamente, anche il sistema della prescrizione e la limitatezza dell?art. 129, 2° comma c.p.p., nella parte in cui prevede l?assoluzione nel merito soltanto nel caso in cui ?dagli atti risulta evidente?, senza richiedere una valutazione di merito a seguito di regolare istruttoria dibattimentale.

ART.8. Diritto al rispetto della vita privata e familiare.

Le decisioni di condanna Caldarella c. Italia e De Carolis e Lolli c. Italia si inseriscono nel solco di una giurisprudenza già tracciata dalla Corte (Campagnano c. Italia; Albanese c. Italia e Vitiello c. Italia, tutte del 23.3.2006), con riguardo alla iscrizione nel registro dei falliti e all?impossibilità di chiedere la riabilitazione prima del decorso di 5 anni dalla chiusura della procedura fallimentare, secondo il regime normativo in vigore prima del D. Lgs. n. 5/2006 (il quale ha abrogato l?art. 50 della legge fallimentare). La Corte ha confermato la contrarietà all?art. 8 di tale regime, e nella sentenza Caldarella, ha anche ritenuto sussistere la violazione dell?art. 13 per mancanza di un ricorso effettivo nazionale che consenta di impugnare la dichiarazione di incapacità conseguente all?iscrizione nel registro dei falliti.

Interessanti appaiono le decisioni di irricevibilità nei casi D'Auria e Balsamo c. Italia e Cariello c. Italia. Entrambi i ricorsi originano da una comune vicenda concernente un caso di intercettazioni telefoniche e ambientali disposte a carico di magistrati e di terze persone utilizzatrici di utenze telefoniche intestate ai primi o aventi con questi ultimi stretti rapporti. Le indagini - nate dalle dichiarazioni di un pentito che riferiva della presunta illegittima adozione da parte dei magistrati, poi indagati, di provvedimenti di scarcerazione in favore di alcun affiliati di un clan camorristico in cambio di somme di denaro o altre utilità - si erano concluse con l'archiviazione, disposta dal Gip su richiesta della stessa Procura, per inidoneità degli indizi raccolti a sostenere l'accusa in giudizio.
Peraltro, nel corso delle indagini erano stati pubblicati su un noto settimanale alcuni stralci delle conversazioni degli indagati oggetto di intercettazione. Era quindi stata aperta un?indagine a carico di ignoti in ordine alla violazione del segreto istruttorio. Anche questa indagine si era conclusa con una richiesta di archiviazione accolta dal Gip, non essendosi riusciti ad identificare l?autore del reato.
I ricorrenti hanno fatto ricorso alla Corte EDU sostenendo la violazione nel caso di specie di più norme della Convenzione: l'art. 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare); l?art. 6 § 2 (relativo alla presunzione di innocenza) e l'art. 13 (Diritto ad un ricorso effettivo).
Sotto il profilo dell'art. 8 della Convenzione, i ricorrenti hanno in particolare lamentato che le autorità giudiziarie non avevano giustificato in modo circostanziato la presenza di ?indizi sufficienti?, costituente un necessario requisito per disporre le intercettazioni telefoniche ai sensi della normativa di riferimento (L. 203/1991). Essi hanno anche rilevato la non sufficiente precisione delle disposizioni di legge in ordine ai casi in cui le intercettazioni possono essere disposte e utilizzate, alle persone che possono esservi sottoposte e ai luoghi in cui l'intercettazione possono essere eseguite. Hanno, inoltre, osservato come le modalità e la durata degli ascolti fossero sproporzionate. Ancora, specie per coloro che sono stati sottoposti ad intercettazione pur in assenza di ipotesi di reato a loro carico, è stata affermata l?assenza di uno scopo legittimo.
Con riferimento all?art. 6 § 2 si è argomentato che la pubblicazione sulla stampa di brani delle intercettazioni riguardanti taluni degli indagati avesse leso il principio della presunzione di innocenza. L?illegittimità di tale pubblicazione è stata fatta rilevare anche sotto il profilo della lesione del diritto al rispetto della vita privata.
In relazione all'art. 13 della Convenzione, infine, i ricorrenti hanno lamentato di non essersi potuti avvalere, sul piano del diritto interno, di ricorsi effettivi per contestare le intercettazioni disposte nei loro confronti.
La Corte ha respinto tutti i motivi di ricorso. Sotto il profilo del diritto al rispetto della vita privata ha fatto osservare che l'attività di intercettazione era prevista dalla legge, e costituiva uno strumento necessario (tanto è vero che ai sensi dell'art. 267 c.p.p. il gip può autorizzarle solo se assolutamente indispensabili per la prosecuzione delle indagini) in una società democratica per perseguire un fine legittimo (quello dell'accertamento della verità in un processo penale e della tutela dell'ordine). Quanto alla indebita pubblicazione di stralci delle stesse intercettazioni su un settimanale, essa ha ritenuto che nessuna responsabilità in proposito potesse imputarsi allo Stato, trattandosi di un settimanale di proprietà di privati in nessun modo soggetto al controllo della pubblica autorità ed essendo state eseguite, successivamente alla illecita divulgazione, minuziose indagini per individuare e perseguire i responsabili della stessa. Ha pertanto ritenuto infondata la presunta violazione del principio di innocenza a carico dello Stato. Quanto, infine, alla pretesa violazione del diritto ad un ricorso effettivo, ha osservato che detto diritto può radicarsi solo ove il ricorrente avanzi una doglianza giustificata, circostanza non verificatasi nel caso di specie.

Le decisioni di condanna nei casi Lombardo c. Italia, e Santilli c. Italia, originano da vicende analoghe, nelle quali i ricorrenti, entrambi padri separati, si sono visti impedire l'esercizio del diritto di visita a causa dell'ostruzionismo posto in essere dalle loro ex compagne. Per far valere il loro diritto i ricorrenti hanno adito più volte le autorità giudiziarie nazionali, facendo rilevare la condotta oppositiva della madre e l'inadeguato intervento dei servizi sociali incaricati di organizzare gli incontri con i minori, non avendo gli stessi mai assicurato la regolarità di tali incontri né il loro svolgimento con modalità che favorissero il consolidarsi del rapporto padre-figlio. I provvedimenti del Tribunale sono risultati nella sostanza disattesi anche con riguardo alle prescrizioni imposte alle parti coinvolte di seguire percorsi di tipo psicoterapeutico. Questa situazione si era, in entrambi i casi, protratta per diversi anni, con la conseguenza di compromettere gravemente la possibilità per i ricorrenti di coltivare un sereno rapporto con i figli, i quali avevano anzi maturato atteggiamenti aggressivi nei confronti della figura paterna.
La Corte nel valutare la prospettata violazione dell'art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) ha ritenuto che le autorità nazionali non avessero fatto tutto ciò che ci si poteva ragionevolmente attendere da esse, dal momento che il tribunale aveva delegato la gestione degli incontri ai servizi sociali e si era limitato a prendere atto della situazione di difficoltà nella organizzazione degli stessi stante l'opposizione attuata della madre. Anche la decisione di far sottoporre la madre e il minore a un programma psicologico era stata presa tardivamente.
La Corte di Strasburgo ha altresì osservato come lo svolgimento del procedimento dinanzi al tribunale evidenziasse una serie di misure automatiche e stereotipate, quali le successive richieste di informazioni e la delega della funzione di controllo ai servizi sociali, ai quali veniva ordinato di far rispettare il diritto di visita. Le autorità avevano così lasciato che si consolidasse una situazione di fatto caratterizzata dall?inosservanza delle decisioni giudiziarie.
La Corte ha quindi concluso che le autorità nazionali avrebbero dovuto adottare misure più dirette e specifiche finalizzate a ristabilire il contatto tra padre e figlio ed intervenire in modo più tempestivo e puntuale. Pertanto, nonostante il margine di apprezzamento rimesso agli Stati in materia, i giudici europei hanno ritenuto che le autorità nazionali avessero omesso di profondere un impegno adeguato e sufficiente a far rispettare il diritto di visita dei ricorrenti, violando in tal modo il loro diritto al rispetto della vita familiare garantito dall?articolo 8 della Convenzione.

ART.9. Libertà di pensiero, di coscienza e di religione.

Si segnala la sola decisione di irricevibilità nel caso Asquini e altri c. Italia, ove i ricorrenti si dolevano del fatto che la scuola italiana obbliga coloro che vogliano ottenere l?esenzione dall?insegnamento della religione per il loro figlio a presentare una richiesta scritta, imponendo loro di assumere una posizione formale riguardo al loro credo personale. I giudici di Strasburgo hanno rilevato che i ricorrenti non avevano presentato al riguardo alcun reclamo agli organi scolastici competenti, né adito i giudici amministrativi nazionali ed ha concluso per l?irricevibilità dei ricorsi per mancato esaurimento delle vie interne.

ART.10. Libertà di espressione.

La Corte ha accertato in due casi distinti, la violazione dell?art. 10 della Convenzione rilevando la non proporzionalità della sanzione irrogata dall?ordinamento nazionale rispetto al legittimo fine perseguito della tutela della reputazione e dei diritti altrui.
Si tratta delle decisioni Belpietro c. Italia e Ricci c. Italia
Nel caso Belpietro il ricorrente rappresentava di essere stato condannato al risarcimento dei danni per un valore di 110.000 euro ed alla pena detentiva di mesi 4 di reclusione, con beneficio della sospensione condizionale a causa del tenore di un articolo redatto da un senatore e pubblicato sul quotidiano da lui diretto. In detto articolo si ricostruiva il rapporto tra alcuni pubblici ministeri palermitani e alcuni appartenenti all'Arma dei Carabinieri in relazione allo svolgimento di delicate indagini su fatti di mafia, attribuendo ai pubblici ministeri di aver utilizzato in modo gravemente irregolare i loro poteri istituzionali, disattendendo ed anzi manipolando l?esito delle attività investigative svolte dai Carabinieri. I pubblici ministeri, ritenendo che il tenore dell'articolo di stampa ledesse la loro reputazione, avevano sporto querela. Il processo si era concluso con la condanna del direttore responsabile alla pena sopra indicata. Belpietro aveva presentato ricorso alla Corte di Strasburgo, sostenendo che la condanna inflittagli integrava una violazione dell'art. 10 della Convenzione sulla libertà di espressione.
La Corte ha riconosciuto che l'intervenuta condanna concretizzasse senz'altro un?ingerenza nell?esercizio della libertà di espressione, ingerenza compatibile con gli obblighi nascenti dalla Convenzione solo ove fossero stati rispettati i parametri posti dal paragrafo 2 dello stesso art. 10. Ritenuti pacificamente sussistenti nel caso di specie la previsione di legge (art. 57 c.p.) e il perseguimento di un fine legittimo quale la tutela della reputazione e dei diritti altrui, oltre che la tutela del potere giudiziario, la Corte si è soffermata sulla verifica della necessità di tale ingerenza in una società democratica.
Al riguardo, dopo aver premesso che la libertà di stampa svolge un ruolo essenziale in una società democratica, la CEDU ha precisato che il diritto dei giornalisti di comunicare informazioni su questioni di interesse generale è tutelato a condizione che essi agiscano in buona fede, sulla base di fatti esatti, e forniscano informazioni «affidabili e precise» nel rispetto dell?etica giornalistica, e che il dovere di controllo gravante sui direttori di testate giornalistiche non viene meno solo perché autore dell?articolo sia un membro del parlamento. Sotto tali profili, quindi, la condanna per diffamazione non poteva dirsi avvenuta in violazione dell?art. 10.
Ciò che la Corte ha ritenuto concretamente lesivo della diritto alla libertà di espressione è stata l?applicazione nel caso di specie di una pena detentiva, anche se condizionalmente sospesa, in quanto avente una portata fortemente dissuasiva, tale da incidere negativamente sulla libertà in parola, e pertanto sproporzionata rispetto allo scopo legittimo perseguito.

Il caso Ricci c. Italia riguarda un episodio di illecita divulgazione di immagini registrate su apposite frequenze RAI, destinate a comunicazioni interne e alla preventiva selezione dei brani da diffondere Si trattava in particolare di un contrasto fuori onda tra due ospiti di una trasmissione, un filosofo e uno scrittore, e al commento in proposito della conduttrice del programma, dispiaciuta di non poter diffondere la registrazione del litigio per mancanza di autorizzazione degli interessati. Dette immagini, captate a seguito di monitoraggio dell?etere, venivano indebitamente utilizzate nel corso di un noto programma satirico di altra emittente. La Rai sporse querela (art. 617 quater, commi 2 e 4, c.p. e 623 bis c.p.) costituendosi parte civile, e parte civile si costituì anche il filosofo. Il processo, nel quale il ricorrente si difese sostenendo di aver utilizzato le immagini per illustrare la natura falsa e ipocrita del programma RAI, si concluse con la condanna dello stesso alla pena detentiva di quattro mesi e cinque giorni di reclusione, con beneficio della sospensione condizionale, nonché al risarcimento dei danni. In relazione a tale condanna Ricci ha proposto ricorso alla Corte di Strasburgo, per asserita violazione dell?art. 10.
Anche in questo caso la Corte, ritenuti rispettati i parametri della previsione di legge e del perseguimento di uno scopo legittimo (ravvisato nella protezione della reputazione altrui e delle comunicazioni riservate), si è concentrata sulla verifica della necessità dell?ingerenza nell?altrui libertà di espressione rappresentata dalla condanna, e sulla proporzionalità della sanzione irrogata in relazione allo scopo perseguito. A tal riguardo ha precisato che una pena detentiva inflitta per un reato commesso nel campo della stampa può dirsi compatibile con la libertà di espressione giornalistica garantita dall?articolo 10 della Convenzione soltanto in circostanze eccezionali, come nell?ipotesi della diffusione di un discorso di odio o di istigazione alla violenza. Nel caso di specie, avente ad oggetto la diffusione di un video il cui contenuto non era di natura tale da provocare un pregiudizio importante, l?applicazione della pena detentiva, anche se sospesa, non risultava proporzionata al fine perseguito.

Sempre in tema di art. 10 va segnalata la decisione di irricevibilità emessa nel caso Di Giovanni c. Italia. La vicenda concerne l?irrogazione da parte della sezione disciplinare del CSM di una sanzione nei confronti di un magistrato, per essere questi venuto meno al dovere di discrezione inerente alla qualità rivestita nonché al dovere di lealtà e rispetto nei confronti dei colleghi, rilasciando un?intervista, pubblicata su un settimanale, con la quale contribuiva a diffondere presso l?opinione pubblica voci, poi risultate infondate, su presunte condotte illecite di colleghi, alcuni dei quali già membri del CSM ed esponenti dell?ANM. Contro l?applicazione di tale sanzione il magistrato ha proposto ricorso alla Corte di Strasburgo, sostenendo la violazione nel caso di specie degli artt. 6 § 1 e 3 CEDU (Diritto ad un equo processo); art. 10 CEDU (Libertà di espressione) e art. 2 Protocollo n. 7 alla CEDU (Diritto a un doppio grado di giudizio in materia penale). La Corte ha ritenuto infondati tutti i motivi di ricorso.
Con riguardo all?asserita violazione del diritto ad un equo processo, la Corte ha escluso che il semplice fatto che i componenti della sezione disciplinare appartenessero al corpo giudiziario abbia pregiudicato di per sé il principio di indipendenza. Essa ha piuttosto riconosciuto rilevanza, quali chiari indicatori di indipendenza dell?organo, alla durata del mandato dei suoi componenti, alla inamovibilità degli stessi per tutta la durata del mandato, alla mancanza di rapporti gerarchici o di altro tipo degli stessi membri con i colleghi che li avevano eletti, essendo l?elezione avvenuta a scrutinio segreto. L?eventuale appartenenza dei membri eletti all?una o l?altra delle correnti ideologiche esistenti all?interno del corpo giudiziario, nell?opinione della Corte, non può essere confusa con una forma di dipendenza gerarchica.
Con riferimento all?asserita violazione del diritto al doppio grado di giudizio, la Corte si è limitata a precisare che il caso di specie non atteneva alla materia penale bensì civile, e dunque non vi era luogo all?applicazione dell?art. 2 Protocollo n. 7.
Con riguardo, infine, alla asserita violazione dell?art. 10, la Corte ha evidenziato come risultassero rispettati nel caso di specie tutte le condizioni poste dal secondo paragrafo del medesimo articolo a fondamento della legittimità dell?ingerenza da parte dell?autorità pubblica nell?esercizio della libertà di espressione spettante ai singoli. In particolare, ha riconosciuto sussistenti la necessità della reazione sanzionatoria in una società democratica a tutela dell?altrui reputazione e del prestigio della magistratura e la proporzionalità della misura applicata, essendo l?ammonimento, irrogato nella specie, la più lieve tra le sanzioni previste dall?ordinamento nazionale.

ART.1 del Protocollo n. 1. Protezione della proprietà.

In primo luogo deve essere menzionata la sentenza M. C. e altri c. Italia del 3.9.2013, ove la Corte europea dei diritti dell'uomo ha esaminato il caso di 162 cittadini italiani che avevano lamentato l'impossibilità di ottenere un adeguamento annuale della parte complementare di un assegno di indennizzo loro corrisposto dal Ministero della Salute a seguito della contaminazione accidentale (del virus HIV, dell'epatite B e dell'epatite C) tramite trasfusioni di sangue o somministrazione di emoderivati.
La CEDU ha dichiarato, all'unanimità, che vi è stata una violazione dell'articolo 6 § 1, (diritto ad un processo equo), una violazione dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 (protezione della proprietà), nonché la violazione dell'articolo 14 (divieto di discriminazione) in combinato disposto con l'articolo 1 del Protocollo n. 1.
La Corte ha osservato sull?art. 6 che l'emanazione del decreto legge 78/2010 ? che aveva risolto in via definitiva i termini del dibattito sulla rivalutazione dell?IIS sottoposto alle autorità giudiziarie, fornendo una interpretazione autentica della legge 210/1992 in un senso favorevole allo Stato - ha inciso sull'esito dei procedimenti pendenti e reso ineseguibili le decisioni favorevoli ai ricorrenti, senza che siano stati addotti e sussistessero "motivi imperiosi d'interesse generale" che potessero consentire un intervento legislativo retroattivo.
In relazione all?art.1 del Protocollo n. 1, i giudici europei hanno rilevato che l'interferenza nel diritto al rispetto dei beni dei ricorrenti sarebbe stata consentita solo ove avesse realizzato un giusto equilibrio tra le esigenze dell'interesse generale della comunità e le esigenze della tutela dei diritti fondamentali dell'individuo, equilibrio che nel caso di specie era mancato, imponendo il completo sacrificio dell'interesse dei privati.
La Corte ha in proposito considerato che l'indennità corrisposta dal Ministero della Salute, costituita al 90% dall'emolumento integrativo, era destinata a coprire i costi del trattamento medico dei ricorrenti ed era, dunque, fondamentale per le loro possibilità di sopravvivenza e di guarigione. L'emanazione del decreto legge aveva così imposto "un onere eccessivo e anormale" sui ricorrenti e l'interferenza con il loro diritto al rispetto dei loro beni era stata sproporzionata. Da ultimo, la Corte ha rilevato che il decreto legge 78/2010 ha comportato una disparità di trattamento in ordine all?assegnazione dell'I.I.S. a persone che si trovavano in una situazione analoga, come già ritenuto dalla Corte costituzionale italiana, sicché la disciplina determinava anche la violazione dell'articolo 14 della Convenzione.
La CEDU ha, inoltre, osservato che le violazioni dei diritti dei ricorrenti non riguardavano casi isolati, ma costituivano il risultato di un problema sistemico derivante dalla mancanza di volontà delle autorità nazionali di regolare l'IIS, anche dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 293/2011. Tenuto conto del numero di persone potenzialmente coinvolte, la Corte ha deciso di applicare la procedura della sentenza pilota ed ha invitato lo Stato italiano a fissare, entro sei mesi dalla data in cui la decisione diventi definitiva, un termine specifico entro il quale si impegni a garantire l'effettiva e rapida realizzazione dei diritti in questione, mediante la previsione in favore di ciascun ricorrente di una somma corrispondente alla I.I.S. rivalutata. Per il periodo di un anno la Corte si è impegnata a non esaminare ricorsi simili non ancora comunicati al Governo italiano.
Nei casi De Luca c. Italia e Pennino c. Italia del 24.9.2013, la CEDU ha affrontato la questione del dissesto finanziario degli enti locali.
I giudici europei - dopo aver effettuato un?ampia disamina della disciplina degli Stati membri in materia e rilevato che soltanto Ungheria e Austria dispongono di istituti simili a quelli previsti dal nostro ordinamento - ha ritenuto la violazione dell?art. 1 del Protocollo n. 1, poiché la mancanza di risorse di un comune, ovvero di un ente pubblico, non può giustificare che questo ometta di onorare gli obblighi derivanti da una sentenza definitiva pronunciata a suo sfavore (nella fattispecie era stata proposta dall?Organo Straordinario di Liquidazione una transazione all?80% del credito, senza corresponsione di interessi e rivalutazione).
Inoltre, la Corte ha ritenuto nei casi di cui sopra anche la violazione dell?art. 6 della Convenzione, considerato che il divieto di intraprendere o proseguire azioni esecutive nei confronti dell?ente dissestato, previsto dal D. Lgs. 267/2000 e dalla legge 140/2004, pur perseguendo lo scopo legittimo di garantire la par condicio creditorum, ha privato i ricorrenti del loro diritto di accesso ad un tribunale per un periodo eccessivamente lungo.
Il Governo italiano ha presentato alla Corte richiesta di revisione delle decisioni e, in via subordinata, il rinvio alla Grande Camera.
Sempre in materia di dissesto degli enti locali, si segnala la decisione di irricevibilità nel caso Villani c. Italia del 28.5.2013, per ritardo nella presentazione del ricorso. La Corte ha ritenuto che il giorno da cui far decorrere il termine di sei mesi per la presentazione del ricorso dovesse essere individuato nella data di entrata in vigore della legge 140/2004 (il 13 giugno 2004), momento nel quale era stato impedito alle ricorrenti di proseguire l?azione esecutiva intrapresa contro il Comune di Benevento.

Altre sentenze dichiarative della violazione dell?art.1 del Protocollo n. 1 riguardano i casi di espropriazione indiretta. Nelle decisioni Ventura c. Italia, Musella e Esposito c. Italia, Gianquitti e altri c. Italia, Rubortone e Caruso c. Italia, Rubortone c. Italia e Stea e altri c. Italia, la Corte ha fatto riferimento alla propria giurisprudenza in materia di espropriazione indiretta (si vedano, tra le altre, Belvedere Alberghiera S.r.l. c. Italia, del 30.5.2000; Scordino c. Italia (n. 3) del 17 maggio 2005; Velocci c. Italia, del 18 marzo 2008 per il riepilogo dei principi pertinenti e per uno sguardo generale sulla sua giurisprudenza in materia).
La CEDU nelle citate sentenze ha osservato che, applicando il principio dell?espropriazione indiretta, i giudici interni hanno considerato che i ricorrenti erano stati privati del proprio bene a decorrere dalla data di realizzazione dell?opera pubblica.
In assenza di un atto formale di espropriazione, la Corte ha rilevato che tale situazione non può essere ritenuta prevedibile, poiché solo con la decisione giudiziaria definitiva si può considerare che il principio dell?espropriazione indiretta sia stato effettivamente applicato e l?acquisizione del terreno da parte delle autorità pubbliche sia stata convalidata.
Di conseguenza, i ricorrenti hanno avuto la sicurezza giuridica, con riguardo alla privazione del terreno, solo alla data in cui la decisione del giudice nazionale è divenuta definitiva.
La Corte ha ritenuto, pertanto, che l?ingerenza in questione non sia compatibile con il principio di legalità e che si sia violato il diritto al rispetto dei beni dei ricorrenti, comportando la violazione dell?articolo 1 del Protocollo n. 1.
I criteri seguiti dalla Corte per la determinazione dell'equa soddisfazione fanno riferimento alla sentenza della Grande Camera Guiso-Gallisay c. Italia del 22 dicembre 2009, che ha ritenuto che l'indennizzo debba corrispondere al valore pieno e intero del terreno o immobile al momento della perdita della proprietà, stabilito dalla perizia disposta dal giudice competente nel corso del procedimento interno. Una volta dedotta la somma eventualmente accordata a livello nazionale, tale importo deve essere attualizzato per compensare gli effetti dell'inflazione.
Nelle decisioni emesse (con l?unica eccezione del caso Stea e altri c. Italia), la Corte ha ritenuto anche la violazione dell?art. 6 della Convenzione, in relazione all?eccessiva durata del processo nazionale.
Contrariamente a quanto accaduto nel 2012, nel quale vi erano stati ben 20 arrêts della Corte sulla liquidazione dell'equa soddisfazione in casi in cui era già stata accertata la violazione dell'art.1 del Protocollo n. 1 sul diritto di proprietà, nel corso del 2103 è stata emessa una sola sentenza ex art 41 della Convenzione. Si tratta della sentenza Lanteri c. Italia del 29.1.2013.
La riduzione sensibile del numero di decisioni in materia di espropriazioni indirette appare legata ad un?iniziativa della Corte che, nel febbraio 2013, ha inviato al Governo italiano una lista con i rimanenti 105 casi pendenti, già comunicati alle parti.
Il Ministero della Giustizia, unitamente al Ministero degli Esteri ed alla Presidenza del Consiglio, sta esaminando i ricorsi comunicati e valutando caso per caso se formulare proposte di regolamento amichevole che, pur tenendo conto dei criteri indicati dalla CEDU, consentano di evitare una sicura condanna e di limitare il più possibile l?aggravio delle casse dell?erario.

Altra decisione che ha accertato la violazione degli art. 6 e 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione è quella resa nel caso Giuseppe Romano c. Italia il 5.3.2013, ove la Corte ha ritenuto la durata eccessiva di una procedura fallimentare e il ritardo nel recupero sia del credito originario vantato dal ricorrente che di quello sorto a seguito del decreto ex lege Pinto.

Vanno poi segnalate sei decisioni di irricevibilità (Marino e altri c. Italia, Segesta s.a.s. c. Italia, Materazzo e altri c. Italia, Traina c. Italia, Di Pietro e Caruso c. Italia, Boadicea Property Services Co. Limited e altri c. Italia) in materia di vincoli di inedificabilità. I ricorrenti avevano lamentato l?eccessiva durata dei vincoli di inedificabilità apposti ai loro terreni e l?assenza di uno strumento per far valere i loro diritti nell?ordinamento italiano. La Corte ? richiamando la sentenza Tiralongo e Carbé c. Italia del 27.11.2012 - ha ricordato la previsione dell?art. 39 del Testo Unico in materia di espropriazioni, che prevede la possibilità di indennizzare i proprietari in caso di reiterazione del vincolo preordinato all?esproprio, ed ha concluso per l?irricevibilità dei ricorsi, stante il mancato esaurimento delle vie di ricorso interno.

Il caso Contessa e altri c. Italia, conclusosi con decisione di irricevibilità della Corte, ha preso in esame la vicenda di alcuni ricorrenti i quali lamentavano di aver acquistato un terreno per adibirlo a stabilimento industriale, facendo affidamento sul piano regolatore generale, ma avevano perduto tale possibilità poiché nell'attesa dello strumento urbanistico particolareggiato era intervenuto un vincolo ambientale. La CEDU ha rilevato che i ricorrenti avevano potuto far valere il loro diritto in sede nazionale dinanzi ai giudici amministrativi ed ha affermato che ?in un ambito così complesso come quello della pianificazione urbana, gli Stati contraenti godono di un ampio margine di apprezzamento nel condurre le loro politiche. Pertanto, in assenza di una decisione manifestamente arbitraria o irragionevole, la Corte non può sostituire la propria valutazione a quella delle autorità nazionali per quanto riguarda la scelta dei mezzi più idonei per ottenere, a livello nazionale, i risultati perseguiti da tale politica?.

Altre quattro decisioni di irricevibilità (Varesi e altri c. Italia, Rossi e altri c. Italia, Ciotoli e altri c. Italia, Tombesi e altri c. Italia) riguardano dei funzionari in pensione dell?INAIL, che avevano sostenuto l?avvenuta violazione dell?art. 1 del Protocollo n. 1 in relazione all?intervento legislativo che mutava il sistema di perequazione delle loro pensioni, passandolo dal regime più favorevole collegato al personale in servizio a quello generale dell?INPS. La Corte europea ha ritenuto che l?intervento del legislatore fosse finalizzato a uniformare il sistema di perequazione per il futuro e che non vi fosse alcuna lesione del diritto dei ricorrenti, atteso che la loro pensione non aveva subito riduzioni.

Art.2 Protocollo n. 1. Diritto all?istruzione

Secondo la decisione della Corte nel caso Tarantino e altri c. Italia del 2.4.2013 la legislazione italiana che prevede un numero chiuso e il superamento di un esame di accesso per iscriversi alle facoltà di medicina e odontoiatria non è contraria al diritto all?istruzione sancito dall?art.2 del Protocollo n. 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell?Uomo. I ricorrenti, otto studenti non ammessi ad iscriversi alle facoltà di medicina e di odontoiatria a causa del mancato superamento dell?esame di accesso, avevano dedotto la violazione del citato articolo 2, relativo al diritto di ogni individuo all?istruzione. La giurisprudenza europea è tuttavia chiara nel ribadire che la Convenzione non impone agli Stati alcun obbligo specifico relativo alla portata, all?organizzazione e al finanziamento dei mezzi di istruzione sul piano interno (in tal senso si veda la decisione della Commissione nel caso X c. Regno Unito, del 9.12.1980). Il diritto di accesso all?istruzione è difatti garantito se e in quanto effettivamente disponibile nell?ambito dell?ordinamento giuridico interno e pur sempre nel rispetto delle limitazioni nazionali. Inoltre, per quanto l?accesso alle istituzioni scolastiche superiori esistenti in un dato momento storico sia parte integrante del diritto all?istruzione, quest?ultimo non ha un carattere assoluto, ma può subire limitazioni da parte dello Stato a seconda delle esigenze e risorse della società, nonché delle caratteristiche proprie ai diversi livelli di istruzione. Naturalmente, come nel caso delle restrizioni apportate ad altri diritti riconosciuti dalla Convenzione, tali limiti devono essere previsibili, preordinati alla realizzazione di un obiettivo legittimo, e proporzionati. Nella specie, la Corte ha ritenuto soddisfatto sia il criterio della prevedibilità delle restrizioni imposte per via legislativa, che quello del perseguimento di un obiettivo legittimo, dato che tali limiti tendono a garantire un livello minimo e adeguato di istruzione in seno alle università italiane, conformemente all?interesse generale. I giudici si sono poi soffermati sulla verifica del rispetto del criterio di proporzionalità fra le restrizioni imposte e l?obiettivo perseguito. Da questo punto di vista, la Corte ha sottolineato come la previsione di un esame di accesso inteso a selezionare gli studenti più meritevoli costituisca una misura proporzionata per garantire livelli di istruzione universitaria adeguati. Allo stesso modo, i giudici hanno ritenuto che l?imposizione di un numero chiuso, determinato sulla base delle limitate risorse materiali a disposizione delle università e delle effettive esigenze di una data professione in seno alla società, sia conforme alla giurisprudenza consolidata della Corte. Subordinando l?iscrizione alle facoltà di medicina e di odontoiatria a tali limiti, quindi, l?Italia non ha oltrepassato il margine di apprezzamento a sua disposizione per regolamentare l?accesso all?istruzione. La sentenza è divenuta definitiva il 9.9.2013, poiché il collegio di cinque giudici della Grande Camera ha deciso di non accettare la richiesta di rinvio presentata dai ricorrenti.


Art.3 Protocollo n. 1. Diritto a libere elezioni.

Occhetto c. Italia, decisioni del 12.2.2013 e del 12.11.2013. La vicenda relativa all?attribuzione di un seggio al Parlamento Europeo, portata all?attenzione della Corte da Achille Occhetto, è stata oggetto di due decisioni di irricevibilità. I giudici europei hanno dapprima ravvisato l?infondatezza della doglianza ai sensi dell?art. 6 sulla mancanza di imparzialità del Consiglio di Stato, poiché la norma convenzionale risulta inapplicabile nel caso sia fatto valere un diritto politico. Con la seconda decisione in data 12.11.2013, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto non sussistente la violazione dell?art. 3 del Protocollo n.1. La CEDU ha ricordato l?ampio margine di apprezzamento concesso agli Stati quando viene in questione il diritto all?elettorato passivo e non ha ravvisato alcun vizio nella decisione del Consiglio di Stato che aveva considerato irrevocabile la rinuncia al seggio europeo firmata da Occhetto il 7.7.2004 in accordo con Di Pietro. La Corte ha rilevato, altresì, che l?eventuale delusione degli elettori che avevano votato il ricorrente non sia addebitabile alle autorità italiane, bensì all?accordo Di Pietro ? Occhetto, che ha privato di effetti concreti il voto espresso dai loro elettori.

Art. 4 Protocollo 7. Ne bis in idem

La decisione di irricevibilità del ricorso Acampora c. Italia ripercorre la questione già esaminata dalla CEDU nel caso Pacifico c. Italia il 20.11.2012. Si tratta delle note vicende Lodo Mondadori e IMI/SIR. Acampora lamentava la violazione dell?art. 6 in relazione alla mancanza di equità del processo e dell?art.4 del Protocollo n. 7 per violazione del principio del ne bis in idem. La Corte, nel dichiarare del tutto infondate le doglianze, ha rilevato la correttezza dei capi d?imputazione contestati al ricorrente e della valutazione delle prove a suo carico. Il secondo motivo, quello del ne bis in idem, è stato respinto poiché i giudici hanno hanno considerato che Acampora fosse stato processato per due episodi di corruzione distinti, commessi in vicende indipendenti (IMI/SIR e Lodo Mondadori).
Nella decisione di irricevibilità Previti c. Italia, anch?essa sui casi IMI/SIR e Lodo Mondadori, la Corte ha esaminato sotto l?aspetto dell?art.6 la dedotta imparzialità dei giudici dei giudici della seconda sezione della Corte di cassazione, che si erano pronunciati su un ricorso straordinario relativo a una questione preliminare di competenza. I giudici europei non hanno ravvisato alcuna violazione della Convenzione, considerato che ? secondo la Corte - la partecipazione di uno o più giudici a una decisione anteriore non legata all?accertamento della colpevolezza non impedisce a detti giudici di prendere parte a uno stadio ulteriore del procedimento. Previti aveva poi dedotto la violazione del principio della presunzione di innocenza, questione respinta dai giudici europei in quanto l?assenza della prova contabile del trasferimento di denaro verso il corrotto non ha comportato alcuna violazione di detto principio, tenuto conto del fatto che il reato di corruzione in atti giudiziari è stato dimostrato con altri indizi precisi, gravi e concordanti. Il ricorrente aveva quindi posto il problema della violazione dell?articolo 7, che avrebbe a suo dire garantito non solo l?irretroattività della legge penale più severa ma anche la retroattività della legge penale più favorevole (nella specie i termini di prescrizione più favorevoli per il reato di corruzione sopraggiunti con la legge 251/2005). I giudici di Strasburgo hanno respinto la tesi secondo cui le norme sulla prescrizione dovrebbero considerarsi sostanziali, ritenendo che le stesse rivestano carattere procedurale e siano, quindi, soggette al principio tempus regit actum. Da ultimo, Previti ha dedotto la questione della violazione del ne bis idem, risolta dalla CEDU in maniera analoga ai ricorsi Acampora e Pacifico.

La decisione di irricevibilità Palazzolo c. Italia del 24.9.2013 riguarda il caso di un cittadino italiano all?epoca detenuto in Thailandia e recentemente estradato in Italia per scontare una condanna definitiva a nove anni di reclusione per partecipazione a Cosa Nostra.
Nella decisione la Corte ha affrontato, sia pur in relazione ad una vicenda del tutto distinta, tematiche analoghe a quelle dei casi precedenti, quali il ne bis idem, la non imparzialità dei giudici nazionali, la violazione della normativa in materia di prova. Di particolare interesse è l?analisi dei giudici di Strasburgo sulla valutazione dei pentiti nei processi contro la criminalità organizzata, ove si afferma che questa costituisce una prerogativa riservata esclusivamente ai giudici interni. La CEDU può, infatti, solamente verificare ai sensi dell?art. 6 se il procedimento, nel suo complesso, sia stato equo . Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che i giudici nazionali abbiano fornito un ragionamento logico e dettagliato in ordine alla credibilità di tutti i pentiti e delle altre prove che corroboravano le loro testimonianze.

Conclusioni.

Alla luce dell?excursus delle decisioni più rilevanti, va posto in rilievo come nel 2013 la Corte abbia tenuto un atteggiamento meno rigido in relazione ai problemi già noti ed evidenziati da tempo, come quello della durata eccessiva dei processi e della procedura Pinto o quello delle espropriazioni indirette. Su tali questioni, la Corte ha richiesto la collaborazione del Governo italiano, invitandolo a regolare in via transattiva le controversie pendenti e pronunciandosi in un numero di casi assai ristretto.
Dirompenti invece sono state le sentenze pilota emesse dalla CEDU in materia di sovraffollamento carcerario e di rivalutazione dell?assegno erogato ai soggetti contaminati da trasfusioni di sangue o somministrazione di emoderivati.
Entrambe le decisioni hanno evidenziato carenze note ed evidenti del sistema nazionale, alle quali tuttavia non si era posto rimedio.
I tempi ristretti imposti dalla Corte stanno impegnando in un notevole sforzo (non solo economico) tutto l?apparato statale, che ha il merito di aver colto immeditamente la gravità della situazione (ci si riferisce soprattutto alla questione carceraria) e di essersi immeditamente adoperato per porvi rimedio.
Da ultimo si segnala la sentenza Varvara c. Italia, che, pur essendo priva di immediate e dirette conseguenze sul sistema processuale italiano, pone con urgenza il problema della revisione della disciplina della confisca urbanistica e/o del regime della prescrizione.