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Mancata scarcerazione è illecito discipinare (Cass. 7307/17)

22 marzo 2017, Cassazione Civile e Nicola Canestrini

La privazione della libertà personale è una delle lesioni più pesanti che una persona possa subire e rappresenta di per sé un danno; infatti, il diritto alla libertà personale è un diritto che l’art. 13 Cost. qualifica inviolabile, specificando che le privazioni della libertà sono consentite solo in casi eccezionali, tassativamente previsti, nel rispetto di regole procedurali rigorose ed entro limiti temporali invalicabili.

Costituisce quindi illecito disciplinare l'aver protratto permanenza in stato di detenzione cautelare domiciliare sine titulo di un indagato per 92 giorni in più rispetto ai limiti massimi fissati dalla legge.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 7 – 22 marzo 2017, n. 7307

Presidente Rordorf – Relatore Tria

Esposizione del fatto

1. La dottoressa B.A.M. è stata incolpata degli illeciti disciplinari di cui al d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 1 e art. 2, comma 1, lett. a) e g) perché, nella qualità di magistrato in servizio presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, con funzioni di sostituto procuratore, ha omesso di esercitare il dovuto controllo sul termine di durata massima della misura cautelare degli arresti domiciliari cui era sottoposto l’imputato M.A. .
Secondo il capo d’incolpazione, il magistrato non si è avveduto della scadenza del suddetto termine (verificatasi il 18 luglio 2010) e non ha mai provveduto a quanto di competenza al fine della dovuta adozione del provvedimento di cessazione di efficacia della misura cautelare.
Tale provvedimento, infatti, è stato emanato - con decorrenza 18 ottobre 2010 e, quindi, con 92 giorni di ritardo - per iniziativa di altro magistrato divenuto assegnatario del fascicolo dopo il trasferimento della incolpata ad altro ufficio.
2. Sulle incolpazioni la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura s’è pronunciata con sentenza n. 145 del 2016, depositata il 14 settembre 2016, nella quale è stato, fra l’altro, evidenziato che la dottoressa B. il 26 giugno 2010, cioè poco prima del termine di scadenza in oggetto, aveva depositato l’avviso di conclusione delle indagini ai sensi dell’art. 415-bis cod. proc. pen..
Tale circostanza - si è sottolineato - dimostra che l’incolpata si era trovata nelle condizioni per valutare la posizione dell’indagato sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari e per non superare il termine della durata massima della misura stessa, sicché l’errore commesso non è stato considerato scusabile, pur dandosi atto delle indubbie criticità riscontratesi per l’incolpata nel periodo lavorativo interessato dal ritardo.
D’altra parte, il Consiglio Superiore ha escluso l’ipotizzabilità della scarsa rilevanza del fatto ex art. 3-bis del d.lgs. n. 109 cit., visto che l’indagato è rimasto illegittimamente ristretto per 92 giorni, di cui 78 riferibili alla posizione della dottoressa B. , circostanza idonea ad affermare che si è così determinata un’effettiva lesione della libertà personale dell’indagato, che è il bene giuridico tutelato, con conseguente concretizzazione di un danno ingiusto per l’interessato, valutabile sotto il profilo dell’art. 2, comma 1, lett. a), cit..
3. Di conseguenza, è stata ritenuta adeguata ai fatti accertati la sanzione della censura.
4. Contro questa sentenza ricorre la dottoressa B. per due motivi, mentre il Ministero della Giustizia resta intimato.

Ragioni della decisione

I - Sintesi delle censure.
1. Il ricorso è articolato in due motivi.
1.1. Con il primo motivo si denuncia violazione dell’art. 2, comma 1, lett. a), del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, contestandosi la ravvisabilità di una negligenza inescusabile e sostenendosi l’insufficienza della motivazione sul punto, non essendo stato precisato se "le indubbie criticità" avutesi per l’incolpata nel periodo lavorativo interessato dal ritardo de quo siano state tali da poter giustificare la riscontrata negligenza.
1.2. Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 3-bis del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, contestandosi il mancato riconoscimento della scarsa rilevanza del fatto e assumendosi la erroneità della motivazione sul punto, visto che il disagio dell’imputato è stato relativo, visto che stava scontando la misura agli arresti domiciliari.
II - Esame delle censure.
2. Il ricorso non va accolto, per le ragioni di seguito esposte.
3. Come è noto, la questione riguardante la individuazione della ipotesi - tra quelle previste dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2 - nella quale si debba far rientrare il comportamento del magistrato che omette di richiedere la revoca della custodia cautelare dopo che i termini massimi previsti dalla legge sono scaduti ha trovato da tempo una soluzione consolidata e costante in sede di Sezioni Unite (vedi, per tutte: Cass. SU 12 marzo 2015, n. 4954; 21 maggio 2014, n. 11228; 27 novembre 2013, n. 26548; 22 aprile 2013, n. 9691; 11 marzo 2013, n. 5943), nei seguenti termini:
- la lett. a) prevede che "Costituiscono illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni i comportamenti che, violando i doveri di cui all’art. 1 (doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio e rispetto della dignità della persona), arrecano ingiusto danno od indebito vantaggio ad una delle parti";
- la lett. g) prevede che costituisce illecito disciplinare "la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inscusabile";
- comune ad entrambe le fattispecie è la violazione del dovere di diligenza che grava sul magistrato nell’esercizio delle sue funzioni;
- la lett. g) aggiunge che la violazione del dovere di diligenza deve anche integrare una grave violazione di legge per ignoranza o negligenza inescusabile. Quindi aggiunge un elemento di qualificazione della violazione: che deve essere grave, deve riguardare una norma di legge e deve essere determinata da ignoranza o negligenza inescusabile;
- la lett. a) aggiunge invece un effetto: la violazione deve aver arrecato un danno ingiusto o un indebito vantaggio ad una delle parti.
4. Ne deriva che i due suddetti illeciti contengono una parte in comune - la violazione di un dovere del magistrato - e un elemento di specificazione proprio di ciascuna di esse, rispettivamente: la qualificazione della violazione (lett. g), l’effetto della violazione (lett. a). Il rapporto tra questi due illeciti si definisce di "specificità bilaterale" e, diversamente da quel che accade nell’ordinario rapporto di specialità (unilaterale) tra illeciti - che esclude il concorso, determinando la prevalenza della fattispecie speciale - è compatibile con il concorso tra i due illeciti, quale si verifica nella specie (vedi, per tutte: Cass. SU 12 marzo 2015, n. 4954, cit.).
In concreto può accadere che ricorra solo la lett. a) perché la violazione del dovere ha determinato l’evento, ma non presenta la particolare qualificazione di cui alla lett. g). Oppure può accadere che presenti tale qualificazione, ma non abbia determinato eventi dannosi o indebitamente vantaggiosi. Ed allora si applicherà solo la lett. g). Ma se la fattispecie concreta integra tutti gli elementi, comuni e specifici previsti dalle due previsioni, gli illeciti saranno in concorso formale tra loro, ipotesi prevista e regolata dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 5, comma 2, (in questo senso si sono univocamente espresse le sentenze di queste Sezioni unite sopra richiamate).
5. Nel caso in esame la Sezione disciplinare ha ritenuto sussistente il concorso tra le fattispecie di cui all’art. 1 con quelle di cui all’art. 2, comma 1, lett. a) e g). Si tratta di un apprezzamento eminentemente di merito, adeguatamente motivato e coerente con la suindicata giurisprudenza di queste Sezioni Unite, nella quale è stato specificamente affermato che "il magistrato ha l’obbligo di diuturnamente vigilare circa la persistenza delle condizioni, anche temporali, cui la legge subordina la privazione della libertà personale di chi è sottoposto ad indagini o imputato" (vedi, fra le altre: Cass. SU 12 gennaio 2011 n. 507; 12 marzo 2015, n. 4954; 20 settembre 2016, n. 18397).
6. Nella descritta situazione, risulta priva di fondamento la tesi della ricorrente secondo cui il disagio subito dell’indagato sarebbe stato relativo, visto che stava scontando la misura agli arresti domiciliari.
Come si è detto, il d.lgs. n. 109 del 2006, art. 2, lett. a), richiede che il comportamento in violazione del dovere di diligenza del magistrato abbia arrecato ad una delle parti un "danno ingiusto" ed è innegabile che la permanenza in stato di detenzione cautelare sine titulo di un indagato per 92 giorni in più rispetto ai limiti massimi fissati dalla legge - di cui 78 riferibili alla posizione della dottoressa B. - costituisca un danno ingiusto, anche nell’ipotesi degli arresti domiciliari.
Invero, anche nella suddetta ipotesi la misura di cui si tratta è pur sempre una misura cautelare personale la cui esecuzione comporta una limitazione fisica di libertà dell’indagato e il diverso grado di afflittività delle modalità di esecuzione della misura, rispetto all’ipotesi di custodia cautelare in carcere, non ha rilievo ai fini che qui interessano, perché ciò che conta in questa sede è l’avvenuta illegittima imposizione di un provvedimento limitativo della libertà personale.
Infatti, la privazione della libertà personale è una delle lesioni più pesanti che una persona possa subire e rappresenta di per sé un danno che, nella specie, è da considerare ingiusto a causa della violazione della norma che fissa i limiti massimi delle misure coercitive.
7. Il diritto alla libertà personale è un diritto che l’art. 13 Cost. qualifica inviolabile. Il medesimo articolo aggiunge poi che privazioni della libertà sono consentite solo in casi eccezionali, tassativamente previsti, nel rispetto di regole procedurali rigorose ed entro limiti temporali invalicabili.
Dalle precisazioni contenute nella richiamata disposizione costituzionale si desume che le misure restrittive, se vanno oltre i limiti temporali imposti dalla legge, non violano solo il diritto alla libertà personale, ma anche il diritto, ulteriore e distinto, ad essere sottoposti ad indagini senza subire limitazioni superiori a quelle consentite dalla legge. Garanzia che costituisce una declinazione del diritto di difesa, tutelato dall’art. 24 Cost..
8. Da quanto si è detto si desume anche l’esattezza dell’inapplicabilità, nella specie dell’art. 3-bis del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109.
Al riguardo, nella sentenza impugnata si specifica che la circostanza che l’indagato sia stato illegittimamente privato della libertà personale per un periodo di ben 78 giorni in conseguenza del comportamento negligente della incolpata è da ritenere "sicuramente idonea a determinare una effettiva lesione del bene giuridico tutelato quale è.... la libertà personale" e, quindi, esclude la ipotizzabilità della scarsa rilevanza del fatto che può condurre all’applicazione dell’esimente in parola.
Si tratta di una motivazione coerente e logica, oltre che conforme ai suindicati principi, incentrata com’è sull’affermazione secondo cui la privazione in violazione di legge della libertà personale di una persona non può essere ritenuta un fatto di scarsa rilevanza.
III – Conclusioni.
9. Alla luce delle suddette considerazioni il ricorso deve essere respinto.
Nessuna pronuncia va emessa in ordine alle spese del giudizio, in quanto il Ministro della Giustizia non si è costituito né ha svolto difese.
10. Risultando dagli atti che il procedimento in esame è esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui all’art. 13, comma 1-quater, del testo unico approvato con il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013).

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso.