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Nessuna estradizione senza pena massima (Cass. 6769/16)

3 febbraio 2016, Cassazione penale

Nel nostro ordinamento il principio di legalità della pena, costituzionalmente garantito dall'art. 25/2 Cost. richiede una preventiva determinatezza, da parte della legge del quomodo, dell'an e del quantum della sanzione.

Le previsioni relative alla disciplina del trattamento sanzionatorio per il reato oggetto del petitum estradizionale rientrano, dunque, nella discrezionalità dell'esercizio del potere legislativo dello Stato richiedente, ma devono essere attentamente valutate alla luce delle implicazioni sottese all'ineludibile quadro di principii scolpiti nella nostra Costituzione in materia di legalità della pena. 

Nel nostro sistema, dunque, la predeterminazione legislativa del massimo di pena irrogabile per un determinato tipo di reato costituisce un requisito essenziale affinchè la discrezionalità giudiziale nella determinazione concreta della pena trovi nella legge il suo limite e la sua regola e non si traduca, invece, in arbitrio. Così interpretato, in definitiva, il principio di legalità della pena esclude la legittimità costituzionale di reati a pena massima indeterminata.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 3 ? 19 febbraio 2016, n. 6769
Presidente Ippolito ? Relatore De Amicis

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza emessa in data 11 novembre 2015 la Corte d'appello di Milano ha disposto l'estradizione di N.Y.C. richiesta dal Governo della Repubblica Popolare di Cina per la esecuzione di un mandato di cattura emesso il 19 gennaio 2015 dal Tribunale di Xinyi per il reato di truffa (ex art. 224 cod. pen. cinese).
2. II difensore di fiducia dell'estradando ha proposto ricorso per cassazione avverso la su indicata sentenza, deducendo tre motivi di doglianza il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente illustrato.
2.1. Inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 13, comma 2, cod. pen., per l'insussistenza del requisito della doppia incriminazione, non emergendo dalla richiesta di estradizione elementi idonei a sussumere i fatti che ne costituiscono l'oggetto nello schema delittuoso della truffa di cui all'art. 224 cod. pen. cinese (fattispecie di reato per la quale il ricorrente è stato arrestato e che la stessa Corte d'appello ha escluso nell'impugnata sentenza), ovvero nel "divieto di vendite piramidali" di cui al primo comma del citato art. 224, o, infine, in qualsivoglia altra fattispecie domestica.
Nel caso in esame, in particolare, la Corte d'appello ha ravvisato nella condotta contestata al ricorrente gli elementi costitutivi del reato di cui all'art. 5 della I. 17 agosto 2005, n. 173, che tuttavia difettano in relazione ad entrambe le ipotesi contravvenzionali ivi descritte, sia perché il gioco on fine "FinnCiti" - che come altri giochi diffusi via internet consente ai partecipanti di costruire una città nel mondo virtuale - non può essere propriamente considerato una "struttura di vendita" finalizzata al reclutamento di nuove persone, sia perché chi vi prende parte riceve una reale controprestazione.
2.2. Violazione di legge con riferimento all'art. 2 del Trattato di estradizione tra la Repubblica italiana e la Repubblica popolare cinese stipulato a Roma il 7 ottobre 2010 e ratificato con l. 24 settembre 2015, n. 161, poiché per il reato per il quale è stata presentata richiesta di estradizione - ex artt. 5 e 7 della l. n. 173/2005 - non è prevista la pena della reclusione ma solo quella dell'arresto, da sei mesi ad un anno, laddove il Trattato in vigore con la Cina limita la concedibilità dell'estradizione alla condizione che il reato oggetto della richiesta sia punito in entrambi gli Stati con la pena della reclusione.
2.3. Vizio di motivazione con riferimento alla difformità di trattamento sanzionatorio previsto per il reato contestato nell'ordinamento dello Stato richiedente, che prevede, nell'art. 224, comma 1, del codice penale cinese, una cornice edittale (quella, cioè, della reclusione pari o superiore a cinque anni per i casi più gravi) di ben cinque volte superiore, nel minimo, al massimo previsto nel nostro ordinamento (dove l'art. 7 della I. n. 173/2005 prevede la sanzione dell'arresto da sei mesi ad un anno).
Si deduce, inoltre, la lesione dei diritti fondamentali sotto il profilo del principio di determinatezza della pena ai sensi degli artt. 25, comma 2, Cost. e 7 CEDU, per l'assoluta indeterminatezza nel massimo della pena potenzialmente irrogabile al ricorrente se estradato e giudicato colpevole.

Considerato in diritto

1. II terzo motivo di ricorso è fondato e ne comporta l'accoglimento con effetto logicamente assorbente rispetto alle residue doglianze difensive.
2. Sulla base della documentazione allegata alla domanda di estradizione la Corte d'appello ha ritenuto che le condotte ivi descritte attengono ad un'ipotesi di "vendita piramidale" nella quale, per un verso, gli investimenti e la gestione finanziaria sono un "camuffamento", per altro verso il reclutamento dei giocatori è operato dalla stessa società gestita dall'imputato con forme e modalità sussumibili nella fattispecie di reato di cui all'art. 7 della I. 17 agosto 2005, n. 173 (recante la "disciplina della vendita diretta a domicilio e tutela del consumatore dalle forme di vendita piramidali"), che sanziona, salvo che il fatto costituisca un più grave reato, le condotte di chi promuove o realizza le attività o le strutture di vendita o le operazioni indicate nell'art. 5 della legge, definite come "forme di vendita piramidali e di giochi o catene".
Secondo tale ultima disposizione normativa, in particolare, "sono vietate la promozione e la realizzazione di attività e di strutture di vendita nelle quali l'incentivo economico primario dei componenti la struttura si fonda sul mero reclutamento di nuovi soggetti piuttosto che sulla loro capacità di vendere o promuovere la vendita di beni o servizi determinati direttamente o attraverso altri componenti la struttura". Sono altresì vietate "la promozione o l'organizzazione di tutte quelle operazioni, quali giochi, piani di sviluppo, "catene di Sant'Antonio", che configurano la possibilità di guadagno attraverso il puro e semplice reclutamento di altre persone e in cui il diritto a reclutare si trasferisce all'infinito previo il pagamento di un corrispettivo".
Nell'art. 7 legge cit. si prevedono, infine, le relative sanzioni stabilendo che "chiunque promuove o realizza le attività o le strutture di vendita o le operazioni di cui all'articolo 5, anche promuovendo iniziative di carattere collettivo o inducendo uno o più soggetti ad aderire, associarsi o affiliarsi alle organizzazioni od operazioni di cui al medesimo articolo, è punito con l'arresto da sei mesi ad un anno o con l'ammenda da 100.000 euro a 600.000 euro".
3. Ora, il terzo motivo di doglianza, prospettato in merito alla difformità del trattamento sanzionatorio previsto per il reato contestato nell'ordinamento dello Stato richiedente, deve essere esaminato alla luce della costante elaborazione giurisprudenziale di questa Suprema Corte (Sez. 6, n. 7183 del 02/02/2011, dep. 24/02/2011, Rv. 249225; Sez. 6, n. 38137 del 24/09/2008, dep. 06/10/2008, Rv. 241263; Sez. 6, n. 4263 del 02/12/2008, dep. 29/01/2009, Rv. 242146), secondo cui, nel procedimento di estradizione, l'eventuale difformità dai parametri del sistema penale italiano non assume rilievo, salvo che essa non sia del tutto irragionevole e si ponga manifestamente in contrasto con il generale principio di legalità e proporzionalità delle pene.
Nel nostro ordinamento, come è noto, il principio di legalità della pena, già stabilito dall'art. 1 cod. pen., è costituzionalmente garantito dall'art. 25, secondo comma, Cost. (Corte cost., sent. n. 15 del 7 marzo 1962) e richiede una preventiva determinatezza, da parte della legge, non solo del quomodo (ovvero della tipologia e del contenuto delle diverse opzioni sanzionatorie) e dell'an della sanzione (ovvero della definizione legale dei criteri attraverso cui vincolare il potere discrezionale del giudice nella scelta relativa all'eventuale superamento della sanzione, o meglio della sottoponibilità a pena), ma anche dei quantum della stessa per sottrarre all'eventuale arbitrio del giudice la determinazione della entità della sofferenza, cioè della compressione della libertà individuale connessa all'inflizione di una condanna.
Le previsioni relative alla disciplina del trattamento sanzionatorio per il reato oggetto del petitum estradizionale rientrano, dunque, nella discrezionalità dell'esercizio del potere legislativo dello Stato richiedente, ma devono essere attentamente valutate alla luce delle implicazioni sottese all'ineludibile quadro di principii scolpiti nella nostra Costituzione in materia di legalità della pena.
Entro tale prospettiva ermeneutica, emerge con evidenza che la cornice edittale delineata per il reato oggetto della domanda di estradizione (ossia, "l'imprigionamento per più di cinque anni e la multa" nei casi di maggiore gravità, secondo l'art. 224, primo comma, del codice penale cinese) è non soltanto superiore di ben cinque volte rispetto al massimo previsto dall'omologa fattispecie di reato contemplata nel nostro ordinamento (I'art. 7 della legge n. 173/2005, che individua, come si è visto, una fascia edittale ricompresa fra il limite di sei mesi e quello di un anno di arresto), ma, soprattutto, si presenta del tutto indeterminata nella previsione del limite massimo di pena detentiva potenzialmente irrogabile al ricorrente, se estradato e ritenuto colpevole all'esito dei giudizio.
Mediante la determinazione legislativa del minimo e dei massimo di pena, infatti, il compito che viene assegnato al giudice è quello di "proporzionare" la sanzione concreta non già al proprio giudizio di disvalore sul fatto previsto dalla legge come reato, ma alla scala di graduazione individuata dal minimo e dal massimo edittali, tenendo conto della volontà del legislatore di comminare il minimo a quelli, tra i casi riconducibili alla medesima fattispecie astratta, che siano connotati da minor gravità e presentino minori indici di capacità a delinquere, e di comminare, d'altra parte, il massimo edittale ai casi che, in base agli elementi di cui all'art. 133 cod. pen., rivestono maggior gravità ed in cui siano ravvisabili indici di maggiore pericolosità personale (Corte cost., sent. n. 299 del 15 giugno 1992).
Nel nostro sistema, dunque, la predeterminazione legislativa del massimo di pena irrogabile per un determinato tipo di reato costituisce un requisito essenziale affinchè la discrezionalità giudiziale nella determinazione concreta della pena trovi nella legge il suo limite e la sua regola e non si traduca, invece, in arbitrio.
Così interpretato, in definitiva, il principio di legalità della pena esclude la legittimità costituzionale di reati a pena massima indeterminata, tant'è che siffatta ipotesi, come ricordato dalla Corte costituzionale nella decisione sopra citata, non ha modo di verificarsi nel nostro ordinamento, poíchè, ove la specifica norma sanzionatoria non indichi il massimo edittale, si deve intendere che essa faccia riferimento alla durata massima prevista in via generale, per le singole categorie di pene, dagli artt. 23-26 cod. pen. e 26 cod. pen. mil. di pace.
Ne discende che, in mancanza di elementi emergenti dagli atti circa una limitazione generale del tipo di quella contemplata dall'art. 24 cod. pen., la relativa domanda estradizionale non soddisfa i requisiti necessari per poter essere accolta.
4. Alla luce delle su esposte considerazioni s'impone, conclusivamente, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.
La Cancelleria curerà l'espletamento degli incombenti di cui all'art. 203, disp. att., cod. proc. pen. .

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 203, disp. att., cod. proc. pen.