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Non esiste un diritto all'arma (CdS, 4334/17)

19 settembre 2017, Consiglio di Stato e Nicola Canestrini

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L'autorizzazione al possesso e al porto delle armi non integra un diritto all’arma, ma costituisce, infatti, il frutto di una valutazione discrezionale nella quale confluiscono sia la mancanza di requisiti negativi, sia la sussistenza di specifiche ragioni positive,

La revoca o il diniego dell’autorizzazione possono essere adottate sulla base di un giudizio ampiamente discrezionale circa la prevedibilità dell’abuso dell’autorizzazione stessa, per cui rilevano anche fatti isolati, ma significativi, perseguendo la valutazione dell'Autorità di pubblica sicurezza lo scopo di prevenire, per quanto possibile, l'abuso di armi da parte di soggetti non pienamente affidabili, tanto che il giudizio di non affidabilità è giustificabile anche in situazioni che non hanno dato luogo a condanne penali o misure di pubblica sicurezza, ma a situazioni genericamente non ascrivibili a buona condotta.

La regola generale è rappresentata dal divieto di detenzione delle armi, e l’autorizzazione di polizia è suscettibile di rimuovere in via di eccezione, in presenza di specifiche ragioni e in assenza di rischi anche solo potenziali, che è compito dell'Autorità di pubblica sicurezza prevenire.
Nel caso la valutazione negativa di affidabilità del soggetto circa l’uso corretto delle armi ed il diniego di autorizzazione alla detenzione di armi è stata legittimamente ancorata ad una condotta trascurata e dal mancato rispetto delle rigorose norme in materia di porto di armi.

 

Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 27 giugno – 13 settembre 2017, n. 4334
Presidente Lipari – Estensore Realfonzo

Fatto

Con il presente gravame il ricorrente chiede la riforma della sentenza n. 1022/2016, resa in forma semplificata, con la quale il Tar per il Piemonte, I Sez., ha respinto il suo ricorso diretto all’annullamento del decreto prot. n. 22561/2015 Area I - DDA del 12 gennaio 2016, con il quale il Prefetto della Provincia di Alessandria gli aveva vietato la detenzione di armi e munizioni, ordinandogli di provvedere alla loro alienazione.
A tale riguardo l’appellante premette in punto di fatto:
-- di essere titolare di licenza di porto d’armi rilasciata il 1 gennaio 2000 per difesa personale in relazione alla sua attività di gioielliere e trasporto di valori;
-- di aver spostato le armi presso il suo negozio di gioielleria in seguito al furto nella propria abitazione avvenuto in data 2 marzo 2015, nel corso del quale i malviventi avevano portato via la cassaforte e rubato alcuni oggetti di valore;
-- che, in data 4 marzo 2015, in occasione dell’attività ispettiva, la Guardia di Finanza nella sua gioielleria aveva rinvenuto sotto il bancone, occultati dietro il battiscopa, due armi da fuoco ed in particolare la sua pistola Smith & Wesson, n. 2 caricatori da nove colpi ed una pistola Walther, che egli era stata ceduta dal fratello e che aveva provveduto a denunciare solamente il giorno seguente;
-- in conseguenza di tale vicenda era stato adottato l’atto impugnato in primo grado.
Si è costituito in giudizio il Ministero dell’Interno, chiedendo la conferma della sentenza, che, a suo giudizio, sarebbe esente dalle censure addebitatele dal ricorrente.
Chiamato all’udienza pubblica di discussione, il ricorso, uditi gli avvocati delle parti, è stato ritenuto in decisione.

Diritto

L’appello è infondato.
Con due articolati, connessi motivi di gravame, l’appellante, riproponendo e sviluppando le censure proposte in primo grado, deduce la violazione degli art. 38 e 39 del r.d. 18 giugno 1931 n. 773, eccesso di potere sotto il profilo della erronea valutazione dei presupposti, illogicità, incongruità, travisamento, contraddittorietà, difetto di istruttoria, ingiustizia manifesta, sviamento, nonché violazione di legge sotto il profilo della falsa applicazione con riferimento all'art. 3 legge 7 agosto 1990, n. 241.
Secondo la ricostruzione fornita dall’appellante, il Prefetto avrebbe erroneamente fondato il provvedimento di diniego di detenzione di armi sulla sola circostanza per cui egli avrebbe omesso di denunciare l’arma cedutagli dal fratello ed avrebbe detenuto un’altra arma di sua proprietà in un luogo diverso da quello preventivamente indicato all’autorità di pubblica sicurezza.
L’appellante evidenzia, a tal proposito, che l’obbligo di detenzione delle armi nel luogo dove si è denunciato la loro presenza si riferisce esclusivamente alla disponibilità permanente delle stesse e non alla loro detenzione meramente temporanea o occasionale (come quella, ad esempio, della detenzione delle cassette metalliche di sicurezza poste all’ingresso delle banche che non consentono l’accesso a soggetti armati).
Il ricorrente, a seguito del furto subìto nella propria abitazione, avrebbe solo cercato di portare le armi in un luogo più sicuro, per cui si sarebbe trattato di uno spostamento reso necessario da esigenze di forza maggiore, indipendenti dalla sua volontà. Inoltre, si sarebbe trattato di un trasferimento solo temporaneo, che l’appellante avrebbe provveduto a denunciare prontamente, secondo le tempistiche di legge, se la Guardia di Finanza non avesse immediatamente proceduto al sequestro delle armi, in occasione della visita ispettiva effettuata solamente dopo 48 ore dalla denuncia del furto (2 marzo 2015), nel locale della gioielleria il 4 marzo 2015.
A causa dell’intervenuto sequestro, egli non avrebbe avuto proprio il tempo materiale di operare la denuncia. Da ciò discenderebbero sia la carenza della valutazione del Prefetto, sia la conseguente erroneità della sentenza del primo giudice, che ha fatto proprie le tesi e le argomentazioni degli atti difensivi dell’amministrazione. Erroneamente si farebbe discendere l’inaffidabilità dell’appellante dalla situazione di oggettiva negligenza nella custodia delle armi e dalla mancata adozione di adeguate precauzioni, ragioni delle quali non v’è traccia nell’atto impugnato in primo grado.
Inoltre, il Tar non avrebbe tenuto conto della circostanza per cui il ricorrente aveva invece effettuato la comunicazione di cessione dell’arma del fratello, dimostrando così un evidente difetto di istruttoria.
L’assunto non può essere condiviso.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato è costante nel ritenere che l’inaffidabilità all’uso delle armi è idonea a giustificare il ritiro della licenza, senza che occorra dimostrarne l’avvenuto abuso: l’art. 39 del R.D. 18 giugno 1031, n. 773, nel prevedere che “il Prefetto ha facoltà di vietare la detenzione delle armi, munizioni e materie esplodenti, denunciate ai termini dell’articolo precedente, alle persone ritenute capaci di abusarne”, conferma che è sufficiente l’esistenza di elementi che fondino solo una ragionevole previsione di un uso inappropriato (Consiglio di Stato, sez. III, 18/04/2017, n. 1814).
La revoca o il diniego dell’autorizzazione possono cioè essere adottate sulla base di un giudizio ampiamente discrezionale circa la prevedibilità dell’abuso dell’autorizzazione stessa, per cui rilevano anche fatti isolati, ma significativi.
Conseguentemente la valutazione dell'Autorità di pubblica sicurezza caratterizzata – come detto – da ampia discrezionalità, persegue lo scopo di prevenire, per quanto possibile, l'abuso di armi da parte di soggetti non pienamente affidabili, tanto che il giudizio di non affidabilità è giustificabile anche in situazioni che non hanno dato luogo a condanne penali o misure di pubblica sicurezza, ma a situazioni genericamente non ascrivibili a buona condotta (Consiglio di Stato, sez. III, 10/08/2016, n. 3590).
La regola generale è rappresentata dal divieto di detenzione delle armi, e l’autorizzazione di polizia è suscettibile di rimuovere in via di eccezione, in presenza di specifiche ragioni e in assenza di rischi anche solo potenziali, che è compito dell'Autorità di pubblica sicurezza prevenire e che nel caso potevano anche essere ragionevolmente collegabili proprio al precedente furto.
Nel caso la valutazione negativa di affidabilità del soggetto circa l’uso corretto delle armi ed il diniego di autorizzazione alla detenzione di armi è stata legittimamente ancorata ad una condotta trascurata e dal mancato rispetto delle rigorose norme in materia di porto di armi.
Nel caso in esame, seppure è altamente probabile che l’appellante temesse un’altra aggressione alla propria gioielleria, comunque l'omessa denuncia del trasferimento delle armi, come tale, denota un comportamento superficiale di per sé indicativo di scarsa affidabilità nella custodia delle stesse, come tale sufficiente a legittimare l'imposizione del divieto ex art. 39 del TULPS.
L'autorizzazione al possesso e al porto delle armi non integra un diritto all’arma, ma costituisce, infatti, il frutto di una valutazione discrezionale nella quale confluiscono sia la mancanza di requisiti negativi, sia la sussistenza di specifiche ragioni positive,
Sotto altro profilo è poi inconferente il tentativo del C. di riportare l’evento nell’ambito della detenzione temporanea, stante l’evidente rapporto di stabilità dell’appellante con il proprio negozio di gioielleria. Tale situazione, infatti, non potrebbe essere in alcun modo assimilata ad altre situazioni di detenzione temporanea ed occasionale indicate dall’appellante (quali il deposito delle armi nelle cassette degli istituti di credito effettuato dai soggetti autorizzati a portare con sé l’arma, anche al di fuori del luogo di detenzione).
Anche prescindendo dai numerosi dubbi sulla correttezza dell’indicato esempio (dal momento che la perdita, anche solo temporanea, della custodia delle armi, effettuata senza adeguate garanzie, potrebbe denotare anch’essa, scarsa affidabilità del soggetto), è evidente, ed inconfutabile, infatti, che in seguito al furto il ricorrente aveva deciso di trasferire le armi nel proprio negozio.
La sentenza impugnata è dunque esente dalla predette censure in quanto è evidente che, nel caso, l’omessa denuncia del trasferimento delle armi dalla propria abitazione al negozio integra un atteggiamento di leggerezza e superficialità nella custodia delle armi, integrando la ragionevole previsione di un uso inappropriato.
Previsione altresì confermata dall’occultamento delle armi, rinvenute dalla Guardia di Finanza, in un posto facilmente accessibile e privo di cautele che impedissero ai terzi di sottrarle.
E’ certo, dunque, un significativo inadempimento da parte del ricorrente dei propri doveri di carattere amministrativo, a conferma della piena legittimità del provvedimento prefettizio che pone tale inadempimento a base del proprio presupposto.
In conclusione l’appello è infondato e deve essere respinto.
Le spese del grado, tuttavia, possono essere integralmente compensate.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando:
1. Respinge l'appello, come in epigrafe proposto.
2. Spese del grado compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.