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Affettività im carcere è un diritto (Corte Cost. 10/24)

24 gennaio 2024, Cassazione penale

L'impossibilità per il detenuto di esprimere una normale affettività con il partner si traduce in un vulnus alla persona nell'ambito familiare e, più ampiamente, in un pregiudizio per la stessa nelle relazioni nelle quali si svolge la sua personalità, esposte pertanto ad un progressivo impoverimento, e in ultimo al rischio della disgregazione.

in riferimento agli artt. 3,27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 8 CEDU, deve essere dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 18 ordin. penit., nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui sopra, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell'unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell'ordine e della disciplina, né, riguardo all'imputato, ragioni giudiziarie.

Corte Costituzionale

24 gennaio 2024

sentenza n. 10

Presidente Barbera – red. Petitti

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 12 gennaio 2023, iscritta al n. 5 del registro ordinanze 2023, il Magistrato di sorveglianza di Spoleto ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, primo e quarto comma, 27, terzo comma, 29, 30, 31, 32 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione agli artt. 3 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), «nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia».

Il rimettente espone di dover giudicare sul reclamo ex art. 35-bis ordin. penit. presentato da E. R., il quale, detenuto presso la Casa circondariale di Terni, si duole del divieto oppostogli dall'amministrazione circa lo svolgimento di colloqui intimi e riservati con la compagna e la figlia in tenera età.

L'interessato deduce – come riferisce l'ordinanza di rimessione – che, «anche in assenza di permessi premio previsti in suo favore, un colloquio intimo costituisca l'unico strumento per esercitare il proprio diritto, un diritto che considera fondamentale, ad una serena relazione di coppia e ad assicurargli a pieno un ruolo genitoriale».

1.1.– Il giudice a quo informa che E. R. è detenuto dal luglio 2019, in relazione a un cumulo di pene per tentato omicidio, furto aggravato, evasione e altro, con fine-pena stabilito all'aprile 2026; aggiunge che il condannato, trasferito nell'istituto di Terni a marzo 2022, non dispone ancora di un programma di trattamento, né potrà verosimilmente godere di permessi premio, sia appunto per l'assenza di un programma che li preveda, sia per l'irrogazione, anche recente, di sanzioni disciplinari.

Il rimettente illustra quanto emerso dall'interlocuzione con la direzione della Casa circondariale di Terni, cioè che, mentre sono state ivi allestite aree dedicate agli incontri dei detenuti con i figli minori, non vi sono spazi riservati per i colloqui con i partner, atteso d'altronde che la vigilanza continua su di essi, tramite controllo a vista del personale di custodia, è prescritta dall'art. 18 ordin. penit.

1.2.– Il Magistrato di sorveglianza di Spoleto ritiene che il controllo a vista sui colloqui con il partner implichi per il detenuto «un vero e proprio divieto di esercitare l'affettività in una dimensione riservata, e segnatamente la sessualità».

Il rimettente considera pertanto rilevanti le sollevate questioni, atteso che, in base al vigente dato normativo, nulla potrebbe imputarsi all'amministrazione penitenziaria e il reclamo del detenuto andrebbe quindi respinto.

1.3.– L'ordinanza di rimessione evoca il precedente di cui alla sentenza di questa Corte n. 301 del 2012, indicando le ragioni in base alle quali le medesime questioni, allora dichiarate inammissibili, potrebbero avere oggi un esito di accoglimento.

A proposito della salvaguardia dei rapporti del detenuto con il convivente di fatto, il rimettente menziona la sopravvenienza dell'art. 1, comma 38, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), che ha parificato i diritti del convivente a quelli del coniuge nei casi previsti dall'ordinamento penitenziario; il giudice a quo menziona altresì l'art. 2-quinquies del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28 (Misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l'introduzione del sistema di allerta Covid-19), convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 2020, n. 70, sulla corrispondenza telefonica del detenuto con le persone a lui legate da stabile relazione affettiva.

1.4.– Ad avviso del rimettente, le questioni non potrebbero essere superate mediante il ricorso ai permessi premio, non potendosi condizionare l'esercizio di un diritto fondamentale ai requisiti della premialità.

Tantomeno sarebbe invocabile l'istituto del permesso per motivi familiari di particolare gravità, contemplato dall'art. 30 ordin. penit. per casi molto stringenti, che non includono quanto attiene alla sfera della sessualità.

1.5.– Il divieto di colloqui intimi tra il detenuto e il partner lederebbe il «diritto [del primo] alla libera espressione della propria affettività, anche mediante i rapporti sessuali, quale diritto inviolabile riconosciuto e garantito, secondo il disposto dell'art. 2 Cost.».

Sarebbe altresì violato l'art. 13, primo comma, Cost., perché «[l]a forzata astinenza dai rapporti sessuali con i congiunti in libertà» integrerebbe una compressione aggiuntiva della libertà personale, ingiustificata nel caso di specie, trattandosi di un condannato ristretto in regime di media sicurezza.

L'art. 13 Cost. sarebbe violato anche nel quarto comma, giacché il divieto di assecondare una normale sessualità si risolverebbe in una violenza fisica e morale sulla persona sottoposta a restrizione di libertà, peraltro con negativa incidenza su qualunque progetto di nuova genitorialità.

Ne deriverebbe inoltre un vulnus alla serenità e alla stabilità della famiglia, protette dagli artt. 29,30 e 31 Cost., nonché un danno alla salute psicofisica del detenuto, garantita dall'art. 32 Cost.

Ancora, sarebbe contraria al senso di umanità e inidonea alla finalità rieducativa, con violazione dunque dell'art. 27, terzo comma, Cost., una pena che conducesse, «attraverso la sottrazione di una porzione significativa di libera disponibilità del proprio corpo e del proprio esprimere affetto, ad una regressione del detenuto verso una dimensione infantilizzante».

1.6.– L'art. 3 Cost. sarebbe violato sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto il divieto di incontri intimi sarebbe assoluto e indiscriminato, non riferito a particolari esigenze di sicurezza, peraltro in contrasto con l'indirizzo generale di cui al decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 123, recante «Riforma dell'ordinamento penitenziario, in attuazione della delega di cui all'articolo 1, commi 82, 83 e 85, lettere a), d), i), l), m), o), r), t) e u), della legge 23 giugno 2017, n. 103», il cui art. 11, comma 1, lettera g), numero 3), intervenendo proprio sull'art. 18 ordin. penit., ha stabilito che i locali destinati ai colloqui con i familiari favoriscono, ove possibile, una dimensione riservata dell'incontro.

Vi sarebbe poi un'ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli istituti minorili, per i quali l'art. 19, comma 4, del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, recante «Disciplina dell'esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all'art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103», ha previsto la riproduzione di ambienti di tipo domestico ove possano svolgersi visite prolungate a tutela dell'affettività.

1.7.– Attraverso il richiamo dell'art. 117, primo comma, Cost., il rimettente denuncia infine la violazione degli artt. 3 e 8 CEDU, poiché la coattiva privazione dell'affettività sfocerebbe in un trattamento inumano e degradante, nel medesimo tempo ledendo il diritto del detenuto al rispetto della propria vita privata e familiare.

Ciò accadrebbe anche in casi – come quello di specie – nei quali non sussistono ragioni di sicurezza tali da giustificare un divieto, in applicazione del margine di discrezionalità riconosciuto al legislatore nazionale dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo.

1.8.– Il giudice a quo rammenta che la già menzionata sentenza n. 301 del 2012 aveva indicato il problema dell'affettività dei detenuti come meritevole di ogni attenzione da parte del legislatore, rimasto inerte al riguardo.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, «per aver ad oggetto una disposizione legislativa vertente in materia riservata alla discrezionalità del legislatore».

La difesa statale richiama anch'essa la sentenza n. 301 del 2012, deducendo la permanenza delle ragioni che indussero questa Corte a dichiarare inammissibili allora questioni analoghe alle odierne.

In particolare, l'interveniente rimarca che la specificità dell'esecuzione della pena detentiva nei confronti dei minori rende la relativa disciplina inidonea a identificare una soluzione costituzionalmente obbligata da estendere ai detenuti adulti.

3.– Si è costituito in giudizio E. R., chiedendo l'accoglimento delle questioni.

Nel condividere per intero gli argomenti esposti dal rimettente, la parte indica a sostegno la sentenza di questa Corte n. 26 del 1999, sulla tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell'amministrazione penitenziaria lesivi di diritti fondamentali dei detenuti, nonché le raccomandazioni degli organismi sovranazionali che incoraggiano il riconoscimento del diritto dei ristretti a una completa vita affettiva.

L'atto di costituzione segnala l'adozione di alcune prassi sperimentali orientate al rispetto dell'intimità del detenuto, come quella delle “stanze dell'affettività” approntate nel carcere milanese di Opera.

Anche in ragione della protratta inerzia legislativa seguita alla più volte citata sentenza n. 301 del 2012, la parte auspica una pronuncia additiva, la cui attuazione potrebbe essere assicurata dal magistrato di sorveglianza, compatibilmente con le condizioni della singola struttura carceraria.

4.– Ha presentato un'opinione scritta, in qualità di amicus curiae, l'associazione Antigone, attiva nella promozione dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario.

L'opinione – ammessa con decreto presidenziale del 19 ottobre 2023 – osserva che il diritto alla sessualità del detenuto viene sacrificato in modo indistinto, senza alcun margine di apprezzamento concreto da parte del magistrato di sorveglianza.

Sottolinea ancora che l'esercizio di un diritto fondamentale della persona non può essere affidato alla logica premiale dei permessi, dei quali usufruisce peraltro una quota modesta della popolazione carceraria.

L'associazione deduce che il legislatore non ha raccolto il monito della sentenza n. 301 del 2012, essendo intervenuto con esclusivo riferimento agli istituti minorili, senza affrontare il problema generale, invece regolato da altri ordinamenti europei e oggetto di numerose raccomandazioni sovranazionali.

5.– In pubblica udienza la difesa statale ha risposto ad alcuni quesiti formulati ai sensi dell'art. 10, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale e ha quindi insistito, al pari della difesa di E. R., nelle già rassegnate conclusioni.

Considerato in diritto

1.– Con l'ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 5 del 2023), il Magistrato di sorveglianza di Spoleto ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, primo e quarto comma, 27, terzo comma, 29, 30, 31, 32 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 3 e 8 CEDU, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 18 ordin. penit., «nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia».

1.1.– L'ordinanza espone che il giudizio principale concerne il reclamo presentato dal detenuto E. R. avverso il diniego oppostogli dalla direzione della Casa circondariale di Terni – ove egli si trova ristretto in esecuzione di pena fino all'aprile 2026 – circa lo svolgimento di colloqui intimi e riservati con la compagna e la figlia in tenera età.

Premesso che il reclamante non potrà verosimilmente fruire di permessi premio, sia perché sprovvisto allo stato di un programma di trattamento, sia perché attinto da sanzioni disciplinari, il giudice a quo denuncia che resterebbe così precluso al detenuto coltivare la relazione affettiva con la compagna in condizioni di intimità, ostandovi la prescrizione del controllo a vista da parte del personale di custodia, inderogabilmente disposto dalla norma censurata quale modalità di svolgimento dei colloqui.

1.2.– Il Magistrato di sorveglianza di Spoleto ritiene che tale prescrizione implichi «un vero e proprio divieto di esercitare l'affettività in una dimensione riservata, e segnatamente la sessualità», il che comporterebbe la violazione degli evocati parametri.

Sarebbe innanzitutto leso un diritto fondamentale della persona, garantito dall'art. 2 Cost., appunto il diritto alla libera espressione dell'affettività, anche nella componente sessuale.

Sarebbe inoltre violato l'art. 3 Cost., sotto un duplice profilo, quello della ragionevolezza, per avere il divieto di intimità negli incontri familiari carattere assoluto, e quello della parità di trattamento rispetto agli istituti penitenziari minorili, all'interno dei quali l'art. 19 del d.lgs. n. 121 del 2018 ha ammesso lo svolgimento di visite prolungate a tutela dell'affettività.

La «forzata astinenza dai rapporti sessuali con i congiunti in libertà» determinerebbe poi una compressione aggiuntiva della libertà personale del detenuto, ingiustificata qualora non ricorrano particolari esigenze di custodia, oltre che una violenza fisica e morale sulla persona del ristretto, emergendo così la violazione dei commi primo e quarto dell'art. 13 Cost.

Una pena caratterizzata dalla «sottrazione di una porzione significativa di libera disponibilità del proprio corpo e del proprio esprimere affetto» sarebbe altresì contraria al senso di umanità e incapace di assolvere alla funzione rieducativa, con conseguente violazione dell'art. 27, terzo comma, Cost.

L'impossibilità di coltivare in modo pieno le relazioni affettive potrebbe anche negativamente incidere sulla continuità e sulla saldezza dei legami familiari del detenuto, protette dagli artt. 29,30 e 31 Cost., e compromettere altresì la salute psicofisica del medesimo, garantita dall'art. 32 Cost.

Ne scaturirebbe la distorsione della pena in un trattamento inumano e degradante, lesivo del diritto del detenuto al rispetto della propria vita privata e familiare, e quindi risulterebbe infine violato l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3 e 8 CEDU.

2.– Intervenuto in giudizio tramite l'Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei ministri ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili, «per aver ad oggetto una disposizione legislativa vertente in materia riservata alla discrezionalità del legislatore».

In particolare, la difesa statale ritiene tuttora insuperate le ragioni esposte da questa Corte nella sentenza n. 301 del 2012, che dichiarò inammissibili questioni analoghe alle odierne.

Tale sentenza viene evocata anche dal rimettente, dalla parte e dall'amicus curiae, nella differente prospettiva della valenza monitoria che alla medesima pronuncia essi associano.

L'eccezione statale non è fondata.

2.1.– Con la citata sentenza, questa Corte dichiarò inammissibili questioni di legittimità costituzionale relative alla medesima disposizione oggi nuovamente censurata, cioè la prescrizione del controllo a vista sui colloqui ex art. 18 ordin. penit.

Al netto di alcune differenze nell'evocazione dei parametri (soprattutto non furono allora dedotti parametri convenzionali), le questioni avevano un oggetto sostanzialmente coincidente con l'odierno, in quanto anch'esse individuavano nel controllo a vista del personale di custodia un ostacolo insormontabile per l'esercizio dell'affettività del detenuto nelle necessarie condizioni di riservatezza.

Oltre che per ragioni attinenti all'incompleta descrizione della fattispecie concreta (non avendo il rimettente specificato il contenuto del reclamo sottoposto al suo giudizio, né il regime carcerario applicato al reclamante, né la fruibilità di permessi premio), l'inammissibilità venne motivata argomentando che «l'eliminazione del controllo visivo non basterebbe comunque, di per sé, a realizzare l'obiettivo perseguito, dovendo necessariamente accedere ad una disciplina che stabilisca termini e modalità di esplicazione del diritto di cui si discute: in particolare, occorrerebbe individuare i relativi destinatari, interni ed esterni, definire i presupposti comportamentali per la concessione delle “visite intime”, fissare il loro numero e la loro durata, determinare le misure organizzative»; operazioni che – proseguiva la sentenza – «implicano, all'evidenza, scelte discrezionali, di esclusiva spettanza del legislatore: e ciò, anche a fronte della ineludibile necessità di bilanciare il diritto evocato con esigenze contrapposte, in particolare con quelle legate all'ordine e alla sicurezza nelle carceri e, amplius, all'ordine e alla sicurezza pubblica».

Questa Corte neppure ritenne possibile pronunciare una sentenza additiva di principio, in quanto essa stessa sarebbe risultata «espressiva di una scelta di fondo», sul tema della selezione delle persone legittimate alle visite riservate.

«Nella prospettiva del giudice a quo» – affermò la Corte – «il “diritto alla sessualità” intra moenia dovrebbe essere [infatti] riconosciuto ai soli detenuti coniugati o che intrattengano rapporti di convivenza stabile more uxorio, escludendo gli altri (si pensi, ad esempio, a chi, all'atto dell'ingresso in carcere, abbia una relazione affettiva “consolidata”, ma non ancora accompagnata dalla convivenza, o da una convivenza “stabile”)», soluzione che non apparve costituzionalmente obbligata.

2.2.– Nonostante le ragioni di inammissibilità delle questioni, la sentenza n. 301 del 2012 non mancò di sottolineare come esse evocassero «una esigenza reale e fortemente avvertita, quale quella di permettere alle persone sottoposte a restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale», esigenza che – si precisò – non trova una risposta adeguata nell'istituto dei permessi premio, «la cui fruizione – stanti i relativi presupposti, soggettivi ed oggettivi – resta in fatto preclusa a larga parte della popolazione carceraria».

Considerata l'insufficienza degli strumenti di diritto positivo, oltre che le linee di tendenza manifestatesi a livello sovranazionale e comparatistico, questa Corte ritenne opportuno segnalare al legislatore che il tema dell'affettività intramuraria del detenuto rappresentava «un problema che merita ogni attenzione».

2.3.– Nel tempo trascorso dalla pubblicazione della sentenza n. 301 del 2012, l'ordinamento penitenziario ha registrato significative innovazioni, che delineano oggi un quadro normativo ben differente da quello di allora.

In particolare, è emersa un'indicazione specifica circa le relazioni qualificate della persona detenuta, meritevoli e bisognose di una considerazione differenziata anche “dentro le mura”, quindi proprio sull'aspetto particolare che aveva indotto questa Corte a ritenere impraticabile l'adozione di una sentenza additiva di principio.

In tal senso ha disposto l'art. 1, comma 38, della legge n. 76 del 2016, a tenore del quale «[i] conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall'ordinamento penitenziario», disposizione che la Corte di cassazione ha precisato riferirsi «alla necessità di tutelare la diretta relazione interpersonale» (sezione prima penale, sentenza 14 settembre 2021-10 febbraio 2022, n. 4641).

In virtù del comma 20 dell'art. 1 della stessa legge n. 76 del 2016, i diritti del coniuge in tema di colloqui penitenziari sono estesi anche alla parte dell'unione civile tra persone dello stesso sesso.

D'altro canto, la stessa disposizione che oggi è nuovamente censurata nella parte riguardante l'inderogabilità del controllo a vista si è medio tempore arricchita di un riferimento privilegiato alla riservatezza dei colloqui tra detenuto e familiari, tramite l'inserzione, ad opera dell'art. 11, comma 1, lettera g), numero 3), del d.lgs. n. 123 del 2018, di un periodo aggiuntivo nel secondo comma (divenuto terzo comma) dell'art. 18 ordin. penit., ai sensi del quale «[i] locali destinati ai colloqui con i familiari favoriscono, ove possibile, una dimensione riservata del colloquio e sono collocati preferibilmente in prossimità dell'ingresso dell'istituto».

Anche quanto disposto per gli istituti minorili dall'art. 19, comma 3, del d.lgs. n. 121 del 2018 («[a]l fine di favorire le relazioni affettive, il detenuto può usufruire ogni mese di quattro visite prolungate della durata non inferiore a quattro ore e non superiore a sei ore») è comunque emblematico di un contesto normativo fortemente innovato rispetto a quello in cui venne pronunciata la sentenza n. 301 del 2012.

2.4.– Per i detenuti adulti il legislatore, esercitando la delega complessiva di cui all'art. 1, comma 82, della legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario), non ha dato seguito al criterio direttivo enunciato dalla lettera n) del successivo comma 85 («riconoscimento del diritto all'affettività delle persone detenute e internate e disciplina delle condizioni generali per il suo esercizio»).

Questa scelta del legislatore delegato ha lasciato aperta la pregressa lacuna, ma in un contesto generale che già era a quel tempo sensibilmente mutato.

2.5.– In definitiva, essendo oggi il quadro normativo differente da quello che fu a base del precedente giudizio di questa Corte, l'eccezione statale di inammissibilità delle nuove questioni va disattesa.

2.6.– All'ordinanza di rimessione in esame non può d'altronde imputarsi un vizio di omessa descrizione della fattispecie come quello rilevato all'epoca, considerato che lo stato detentivo di E. R. vi si trova adeguatamente illustrato, anche sotto il profilo della possibilità di accesso ai permessi premio.

2.6.1.– Il Magistrato di sorveglianza di Spoleto assume che la questione dell'affettività del detenuto non possa essere risolta mediante l'istituto dei permessi premio, in quanto sarebbe improprio subordinare ad una logica premiale l'esercizio di un diritto fondamentale.

L'amicus curiae sottolinea d'altronde che ai permessi premio accede una quota modesta della platea dei detenuti.

Nella più volte ricordata sentenza n. 301 del 2012, questa Corte ha osservato che tale istituto può offrire qui «una risposta solo parziale», giacché la fruizione del permesso premio – «stanti i relativi presupposti, soggettivi ed oggettivi – resta in fatto preclusa a larga parte della popolazione carceraria».

2.6.2.– Ai sensi dell'art. 30-ter ordin. penit., la concessione del permesso premio non è subordinata unicamente ai requisiti soggettivi della regolarità della condotta in carcere e dell'assenza di pericolosità sociale (comma 1), ma anche a presupposti quantitativi, ove la pena inflitta superi i quattro anni di reclusione, occorrendo in tal caso l'espiazione di almeno un quarto della pena stessa, e di almeno dieci anni per i condannati all'ergastolo (comma 4, lettere b e d); al permesso premio non può inoltre accedere il detenuto in attesa di giudizio, perché «[l]'esperienza dei permessi premio è parte integrante del programma di trattamento» (comma 3).

Il permesso premio, che pure è concedibile anche «per consentire di coltivare interessi affettivi» (art. 30-ter, comma 1, ordin. penit.), non elimina dunque il problema dell'affettività del detenuto, ma consente solo di alleggerirlo, trasferendo “fuori le mura” la realizzazione delle esigenze affettive per chi abbia accesso al beneficio premiale.

L'inadeguatezza dell'attuale situazione normativa è di particolare evidenza per il detenuto in attesa di giudizio, al quale è preclusa l'affettività extra moenia a causa dell'impossibilità di fruire di permessi premio ed è altresì preclusa l'affettività intramuraria per effetto dell'art. 18 ordin. penit., tutto ad onta della presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva, di cui all'art. 27, secondo comma, Cost.

È quindi confermato che la disciplina dei permessi premio non è allo stato idonea a risolvere il problema dell'affettività del detenuto e che esso ha pertanto una necessaria dimensione intramuraria, profilo che assicura la rilevanza delle questioni sollevate dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto.

3.– Le questioni sono fondate, nei termini che seguono.

3.1.– L'ordinamento giuridico tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l'essenza.

Lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società.

La questione dell'affettività intramuraria concerne dunque l'individuazione del limite concreto entro il quale lo stato detentivo è in grado di giustificare una compressione della libertà di esprimere affetto, anche nella dimensione intima; limite oltre il quale il sacrificio della libertà stessa si rivela costituzionalmente ingiustificabile, risolvendosi in una lesione della dignità della persona.

La segnalazione all'indirizzo del legislatore rivolta da questa Corte con la sentenza n. 301 del 2012 era appunto finalizzata a promuovere la ricerca di un punto di equilibrio, che, pur senza compromettere la sicurezza e l'ordine ineludibili negli istituti penitenziari, consentisse tuttavia l'apertura di spazi di manifestazione di quella basilare libertà.

3.2.– L'art. 18, terzo comma, ordin. penit. dispone che «[i] colloqui si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia».

Il segmento normativo censurato dal giudice a quo, vale a dire la prescrizione del controllo visivo, è ribadito dall'art. 37, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà), per cui «[i]n ogni caso, i colloqui si svolgono sotto il controllo a vista del personale del Corpo di polizia penitenziaria».

Tali previsioni non contemplano deroghe, e anche l'art. 61, comma 2, lettera b), dello stesso d.P.R. n. 230 del 2000, laddove consente al direttore dell'istituto, in funzione della preservazione dei rapporti familiari del detenuto, di autorizzare visite di durata più lunga dell'ordinario, fruibili in appositi locali o all'aperto, non devia dal controllo a vista, tenendo anzi ferme «le modalità previste dal secondo comma [oggi: terzo comma] dell'articolo 18 della legge».

È dunque corretto il presupposto interpretativo da cui muove l'ordinanza di rimessione – peraltro confermato dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 27 settembre 2022-24 gennaio 2023, n. 3035) – circa l'assolutezza della prescrizione del controllo visivo sui colloqui familiari del detenuto e la conseguente preclusione dell'esercizio dell'affettività intramuraria, anche sessuale.

3.3.– L'osservazione del colloquio rappresenta un importante presidio di regolarità, funzionale ad evitare la strumentalizzazione del colloquio medesimo a fini impropri (ad esempio per il passaggio di oggetti destinati a scambi illeciti o atti ad offendere), così da permetterne, se del caso, l'immediata sospensione (art. 37, comma 4, del d.P.R. n. 230 del 2000).

A tale ratio corrisponde la limitazione oggettiva del controllo, che invero, a norma dello stesso art. 18, terzo comma, ordin. penit., è «a vista», ma «non auditivo», avendo il legislatore inteso salvaguardare – finché non ricorrano i presupposti di un'intercettazione tra presenti – la riservatezza della comunicazione tra il detenuto e il familiare (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 28 novembre 2008-28 gennaio 2009, n. 3932).

Dunque, il controllo auditivo sul colloquio è escluso salvo eccezioni, mentre il controllo visivo è prescritto senza eccezioni, e proprio questa assolutezza espone la disposizione censurata a un giudizio di irragionevolezza per difetto di proporzionalità.

3.4.– Nel presidiare la regolarità dell'incontro, il controllo a vista sullo svolgimento del colloquio obiettivamente restringe lo spazio di espressione dell'affettività, per la naturale intimità che questa presuppone, in ogni sua manifestazione, non necessariamente sessuale.

È ben vero che questa Corte ha da tempo riconosciuto nella sessualità «uno degli essenziali modi di espressione della persona umana» (sentenza n. 561 del 1987), ma non può ridursi il tema dell'affettività del detenuto a quello della sessualità, in quanto esso più ampiamente coinvolge aspetti della personalità e modalità di relazione che attengono ai connotati indefettibili dell'essere umano.

4.– Tra i «principi direttivi» dell'ordinamento penitenziario, declinati dall'art. 1 della legge n. 354 del 1975, vi è quello per cui «[i]l trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona» (comma 1, primo periodo), quello per cui esso «è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni degli interessati» (comma 2) e altresì il principio del “minimo mezzo”, per cui «[n]on possono essere adottate restrizioni non giustificabili con l'esigenza di mantenimento dell'ordine e della disciplina e, nei confronti degli imputati, non indispensabili a fini giudiziari» (comma 5).

Detti principi corrispondono a quelli enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte sul «volto costituzionale» della pena, che è una sofferenza in tanto legittima in quanto inflitta «nella misura minima necessaria» (sentenza n. 179 del 2017; nello stesso senso, sentenze n. 28 del 2022 e n. 40 del 2019).

Dal canto loro, le Regole penitenziarie europee, adottate in data 11 gennaio 2006 con Raccomandazione Rec(2006)2-rev dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, e dallo stesso riviste ed emendate il 1° luglio 2020, contengono un'applicazione del principio del minimo mezzo, laddove è stabilito che le visite devono essere svolte con modalità tali da consentire ai detenuti di mantenere e sviluppare le relazioni, nello specifico familiari, «in as normal a manner as possible» (regola 24.4).

4.1.– La prescrizione del controllo a vista sullo svolgimento del colloquio del detenuto con le persone a lui legate da stabile relazione affettiva, in quanto disposta in termini assoluti e inderogabili, si risolve in una compressione sproporzionata e in un sacrificio irragionevole della dignità della persona, quindi in una violazione dell'art. 3 Cost., sempre che, tenuto conto del comportamento del detenuto in carcere, non ricorrano in concreto ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell'ordine e della disciplina, né sussistano, rispetto all'imputato, specifiche finalità giudiziarie.

Si rammenta, in proposito, quanto sottolineato da questa Corte nella sentenza n. 26 del 1999, circa la tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti, cioè che «[l]a dignità della persona (art. 3, primo comma, della Costituzione) anche in questo caso – anzi: soprattutto in questo caso, il cui dato distintivo è la precarietà degli individui, derivante dalla mancanza di libertà, in condizioni di ambiente per loro natura destinate a separare dalla società civile – è dalla Costituzione protetta attraverso il bagaglio degli inviolabili diritti dell'uomo che anche il detenuto porta con sé lungo tutto il corso dell'esecuzione penale».

4.2.– Un ulteriore profilo di irragionevolezza delle restrizioni imposte all'espressione dell'affettività, quali conseguono all'inderogabilità del controllo a vista sui colloqui familiari, riguarda il loro riverberarsi sulle persone che, legate al detenuto da stabile relazione affettiva, vengono limitate nella possibilità di coltivare il rapporto, anche per anni.

Si tratta di persone estranee al reato e alla condanna, che subiscono dalla descritta situazione normativa un pregiudizio indiretto.

Per quanto in certa misura sia inevitabile che le persone affettivamente legate al detenuto patiscano le conseguenze fattuali delle restrizioni carcerarie a lui imposte, tale riflesso soggettivo diviene incongruo quando la restrizione stessa non sia necessaria, e pertanto, nella specie, quando il colloquio possa essere svolto in condizioni di intimità senza che abbiano a patirne le esigenze di sicurezza.

Anche tali rilievi sulla lesione della dignità del terzo valgono per l'affettività in ogni sua manifestazione, e non soltanto per la sessualità, pur se quest'ultima, nella specifica prospettiva del coniugio, assume una rilevanza peculiare.

4.2.1.– Invero, la legge n. 354 del 1975 ammette che il matrimonio del detenuto sia celebrato in carcere (art. 44), ma, quando non siano fruibili permessi premio, di fatto impedisce l'affettività coniugale; nemmeno soccorre il cosiddetto permesso di necessità (art. 30), non essendo considerata detta ragione un grave motivo familiare agli effetti della concessione di tale speciale permesso (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 29 settembre 2015-12 gennaio 2016, n. 882, e 26 novembre-24 dicembre 2008, n. 48165).

Si determina in tal modo il fenomeno usualmente indicato con l'immagine dei “matrimoni bianchi”, che evidenzia non soltanto una lesione della dignità degli sposi, ma anche una contraddizione interna al quadro normativo, giacché il fatto che «il matrimonio non è stato consumato» – a norma dell'art. 3, primo comma, numero 2), lettera f), della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) – è causa di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio.

4.3.– L'impossibilità per il detenuto di esprimere una normale affettività con il partner si traduce in un vulnus alla persona nell'ambito familiare e, più ampiamente, in un pregiudizio per la stessa nelle relazioni nelle quali si svolge la sua personalità, esposte pertanto ad un progressivo impoverimento, e in ultimo al rischio della disgregazione.

Da questo punto di vista si evidenzia la violazione dell'art. 27, terzo comma, Cost., in quanto una pena che impedisce al condannato di esercitare l'affettività nei colloqui con i familiari rischia di rivelarsi inidonea alla finalità rieducativa.

L'intimità degli affetti non può essere sacrificata dall'esecuzione penale oltre la misura del necessario, venendo altrimenti percepita la sanzione come esageratamente afflittiva, sì da non poter tendere all'obiettivo della risocializzazione.

Il perseguimento di questo obiettivo risulta anzi gravemente ostacolato dall'indebolimento delle relazioni affettive, che può arrivare finanche alla dissoluzione delle stesse, giacché frustrate dalla protratta impossibilità di coltivarle nell'intimità di incontri riservati, con quell'esito di “desertificazione affettiva” che è l'esatto opposto della risocializzazione.

4.4.– La disposizione censurata viola anche l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 8 CEDU.

4.4.1.– Occorre premettere che ormai una larga maggioranza di ordinamenti europei riconosce ai detenuti spazi più o meno ampi di espressione dell'affettività intramuraria, inclusa la sessualità.

Si ricordano i parlatori familiari (parloirs familiaux) e le unità di vita familiare (unités de vie familiale), locali appositamente concepiti nei quali il codice penitenziario francese prevede possano svolgersi visite di familiari adulti, di durata più o meno estesa, «sans surveillance continue et directe»; con funzione analoga si segnalano le comunicaciones íntimas, disciplinate dal regolamento penitenziario spagnolo, e le visite di lunga durata (Langzeitbesuche), ammesse dalla legislazione penitenziaria di molti Länder tedeschi.

In più occasioni, la Corte EDU, pur dichiarando che gli Stati non sono obbligati a riconoscere le conjugal visits, poiché godono al riguardo di un vasto margine di apprezzamento, ha ritenuto il suddetto orientamento legislativo conforme alla tutela dei diritti e delle libertà previsti dalla Convenzione (Corte EDU, grande camera, sentenza 4 dicembre 2007, Dickson contro Regno Unito, poi Corte EDU, sentenze 7 luglio 2022, Chocholáč contro Slovacchia, e 1° luglio 2021, Lesław Wójcik contro Polonia).

In particolare, la Corte di Strasburgo non esclude che il singolo ordinamento possa rifiutare l'accesso alle visite coniugali quando ciò sia giustificato da obiettivi di prevenzione del disordine e del crimine, ai sensi del paragrafo 2 dell'art. 8 CEDU (sentenza 29 aprile 2003, Aliev contro Ucraina). Viene però richiesto un «fair balance» tra gli interessi pubblici e privati coinvolti ovvero un test di proporzionalità della restrizione carceraria (sentenza Dickson contro Regno Unito) e, quand'anche la visita coniugale sia intesa in senso premiale, si esige un'adeguata valutazione di taglio casistico (sentenza Lesław Wójcik contro Polonia).

4.4.2.– Il carattere assoluto e indiscriminato del divieto di esercizio dell'affettività intramuraria, quale deriva dall'inderogabilità della prescrizione del controllo a vista sullo svolgimento dei colloqui, pone l'art. 18 ordin. penit. in contrasto con l'art. 8 CEDU, sotto il profilo del difetto di proporzionalità tra tale radicale divieto e le sue, pur legittime, finalità.

In particolare, il diritto al rispetto della vita privata e familiare, garantito dal paragrafo 1 dell'art. 8 CEDU, viene compresso senza che sia verificabile in concreto, agli effetti del successivo paragrafo 2, la necessità della misura restrittiva per esigenze di difesa dell'ordine e prevenzione dei reati.

5.– Devono essere quindi accolte le censure riferite agli artt. 3,27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 8 CEDU.

6.– Questa Corte è consapevole dell'impatto che l'odierna sentenza è destinata a produrre sulla gestione degli istituti penitenziari, come anche dello sforzo organizzativo che sarà necessario per adeguare ad una nuova esigenza relazionale strutture già gravate da persistenti problemi di sovraffollamento.

Il lungo tempo trascorso dalla sentenza n. 301 del 2012, e dalla segnalazione che essa rivolgeva all'attenzione del legislatore, impone tuttavia di ricondurre a legittimità costituzionale una norma irragionevole nella sua assolutezza e lesiva della dignità delle persone.

La complessità dei problemi operativi che ne scaturiscono sollecita ancora una volta la responsabilità del legislatore, ove esso intenda approntare in materia un quadro normativo di livello primario.

Può ricordarsi in proposito la già menzionata sentenza n. 26 del 1999, con la quale questa Corte, dichiarando l'illegittimità costituzionale degli artt. 35 e 69 ordin. penit. nella parte in cui non prevedevano una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell'amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti dei detenuti, «chiama[va] il legislatore all'esercizio della funzione normativa che a esso compete, in attuazione dei principi della Costituzione».

6.1.– Al fine di garantire l'effettività dei principi di cui si è detto finora e di salvaguardare l'esercizio della discrezionalità legislativa, questa Corte intende rimarcare alcuni profili conseguenti alla sentenza che oggi pronuncia.

Si tratta di aspetti già messi in luce dalla sentenza n. 301 del 2012, come rammentato poc'anzi (punto 2.1.), e poi regolamentati per il detenuto minorenne dall'art. 19 del d.lgs. n. 121 del 2018.

Essi segnalano infatti problemi ed esigenze che si pongono per l'esercizio dell'affettività intramuraria di ogni persona detenuta.

6.1.1.– La durata dei colloqui intimi deve essere adeguata all'obiettivo di consentire al detenuto e al suo partner un'espressione piena dell'affettività, che non necessariamente implica una declinazione sessuale, ma neppure la esclude.

6.1.2.– In quanto finalizzate alla conservazione di relazioni affettive stabili, le visite in questione devono potersi svolgere in modo non sporadico (ovviamente qualora ne permangano i presupposti), e tale da non impedire che gli incontri possano raggiungere lo scopo complessivo di preservazione della stabilità della relazione affettiva.

6.1.3.– Numerosi testi sovranazionali indicano nella predisposizione di luoghi appropriati una condizione basilare per l'esercizio dell'affettività intramuraria del detenuto: così, in particolare, la raccomandazione n. 1340 (1997), sugli effetti della detenzione sul piano familiare e sociale, adottata dall'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa il 22 settembre 1997 (punto 6.6.), e la raccomandazione n. 2003/2188 (INI), sui diritti dei detenuti nell'Unione europea, adottata dal Parlamento europeo il 9 marzo 2004 (punto 1, lettera c).

Può ipotizzarsi che le visite a tutela dell'affettività si svolgano in unità abitative appositamente attrezzate all'interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione e la consumazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico.

È comunque necessario che sia assicurata la riservatezza del locale di svolgimento dell'incontro, il quale, per consentire una piena manifestazione dell'affettività, deve essere sottratto non solo all'osservazione interna da parte del personale di custodia (che dunque vigilerà solo all'esterno), ma anche allo sguardo degli altri detenuti e di chi con loro colloquia.

6.1.4.– A differenza di quanto previsto dall'art. 19, comma 3, del d.lgs. n. 121 del 2018 per la visita prolungata del detenuto minorenne, per il detenuto adulto non va ammessa la compresenza di più persone, considerata l'eventualità di una declinazione sessuale dell'incontro, che deve quindi svolgersi unicamente con il coniuge, la parte dell'unione civile o la persona stabilmente convivente con il detenuto stesso.

6.1.5.– Prima di autorizzare il colloquio riservato, il direttore dell'istituto, oltre all'esistenza di eventuali divieti dell'autorità giudiziaria che impediscano i contatti del detenuto con la persona con la quale il colloquio stesso deve avvenire, avrà cura di verificare altresì la sussistenza del presupposto dello stabile legame affettivo, in particolare l'effettività della pregressa convivenza.

6.1.6.– Nella fruizione dei locali predisposti per l'esercizio dell'affettività (i quali verosimilmente saranno, almeno all'inizio, una “risorsa scarsa”) «sono favorite le visite prolungate per i detenuti che non usufruiscono di permessi premio» (sempre che ciò non dipenda da ragioni ostative anche all'esercizio dell'affettività intramuraria).

Prevista dall'art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 121 del 2018 riguardo al detenuto minorenne, la particolare considerazione nei confronti di chi non può usufruire di permessi premio può estendersi alla disciplina del detenuto adulto, analoga essendo la ratio di sussidiarietà dell'affettività intra moenia rispetto a quella più fisiologicamente esprimibile “fuori le mura”.

7.– Nella formulazione del petitum, il Magistrato di sorveglianza di Spoleto prospetta come ostative ai colloqui intimi unicamente «ragioni di sicurezza».

Questa impostazione non attribuisce il dovuto rilievo al principio direttivo enunciato dall'art. 1, comma 5, ordin. penit., laddove, quale fondamento delle restrizioni intramurarie, si indicano, più ampiamente, l'«esigenza di mantenimento dell'ordine e della disciplina» e, nei confronti degli imputati, i «fini giudiziari».

La rimozione del controllo a vista del personale di custodia, funzionale a consentire lo svolgimento del colloquio nell'intimità necessaria all'espressione dell'affettività, può dunque essere negata quando, tenuto conto del comportamento del detenuto in carcere, ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell'ordine e della disciplina, ovvero anche, riguardo all'imputato, motivi di carattere giudiziario.

Possono quindi rilevare in senso ostativo – non soltanto la pericolosità sociale del detenuto, ma anche – irregolarità di condotta e precedenti disciplinari, in una valutazione complessiva che appartiene in prima battuta all'amministrazione e in secondo luogo al magistrato di sorveglianza, sulla base del modulo ordinario di cui agli artt. 35-bis e 69, comma 6, lettera b), ordin. penit.

Per l'imputato, l'apprezzamento delle ragioni processuali, innanzitutto la valutazione delle esigenze di salvaguardia della prova, è di competenza dell'autorità giudiziaria che procede, fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, dopo la quale l'ammissione al colloquio riservato rientra nella competenza del direttore dell'istituto, come stabiliscono, per i permessi di colloquio in genere, gli artt. 18, decimo comma, della legge n. 354 del 1975 e 37, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 230 del 2000.

8.– In coerenza con l'oggetto del giudizio principale, instaurato dal reclamo di un detenuto in regime ordinario di media sicurezza, deve precisarsi che l'odierna sentenza non concerne i regimi detentivi speciali.

8.1.– Essa in particolare non riguarda il regime speciale di detenzione di cui all'art. 41-bis ordin. penit., poiché esso, ai sensi del comma 2-quater, lettera b), della stessa disposizione, comporta l'applicazione di una disciplina dei colloqui radicalmente derogatoria, quanto al controllo finanche auditivo sui colloqui medesimi e alla conformazione dei locali in cui si svolgono.

8.2.– La presente decisione neppure riguarda i detenuti sottoposti a sorveglianza particolare, in quanto, sebbene le restrizioni associate a tale regime non possano avere ad oggetto i colloqui con il coniuge e il convivente (art. 14-quater, comma 4, ordin. penit.), i presupposti della relativa applicazione, definiti dall'art. 14-bis, comma 1, ordin. penit., sono antitetici rispetto a quelli dell'ammissione al colloquio intimo, trattandosi di reclusi che «con i loro comportamenti compromettono la sicurezza ovvero turbano l'ordine negli istituti» (lettera a), «con la violenza o minaccia impediscono le attività degli altri detenuti o internati» (lettera b) o che «nella vita penitenziaria si avvalgono dello stato di soggezione degli altri detenuti nei loro confronti» (lettera c).

Peraltro, la temporaneità del regime di sorveglianza particolare (di durata non superiore a sei mesi, prorogabile in misura non superiore ogni volta a tre mesi) e l'immediata sottoposizione del provvedimento applicativo al controllo del magistrato di sorveglianza – in base alle disposizioni dei commi 1 e 6 del medesimo art. 14-bis – assicurano che le restrizioni abbiano un continuo e attuale fondamento di necessità.

8.3.– Quanto ai detenuti per reati cosiddetti ostativi, in linea di principio non sussistono impedimenti normativi che precludano l'esercizio dell'affettività intra moenia, posto che l'ostatività del titolo di reato inerisce alla concessione dei benefici penitenziari e non riguarda le modalità dei colloqui.

Peraltro, la significativa riduzione del numero dei colloqui autorizzabili, che l'art. 37, comma 8, del d.P.R. n. 230 del 2000 stabilisce «[q]uando si tratta di detenuti o internati per uno dei delitti previsti dal primo periodo del primo comma dell'articolo 4-bis della legge e per i quali si applichi il divieto di benefìci ivi previsto», indica un chiaro orientamento legislativo nel senso di un maggiore controllo sugli incontri di queste persone, e ciò non può che tradursi in una più stringente verifica dei presupposti di ammissione all'esercizio dell'affettività intramuraria.

9.– Resta ovviamente salva la possibilità per il legislatore di disciplinare la materia stabilendo termini e condizioni diversi da quelli sopra enunciati, purché idonei a garantire l'esercizio dell'affettività dei detenuti, nel senso fatto proprio dalla presente pronuncia.

È altresì opportuno valorizzare qui il contributo che a un'ordinata attuazione dell'odierna decisione può dare – almeno nelle more dell'intervento del legislatore – l'amministrazione della giustizia, in tutte le sue articolazioni, centrali e periferiche, non esclusi i direttori dei singoli istituti.

Venendo meno con questa decisione l'inderogabilità del controllo visivo sugli incontri, può ipotizzarsi la creazione all'interno degli istituti penitenziari – laddove le condizioni materiali della singola struttura lo consentano, e con la gradualità eventualmente necessaria – di appositi spazi riservati ai colloqui intimi tra la persona detenuta e quella ad essa affettivamente legata.

In questa prospettiva, l'azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell'amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze, potrà accompagnare una tappa importante del percorso di inveramento del volto costituzionale della pena.

10.– Per tutto quanto esposto, in riferimento agli artt. 3,27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 8 CEDU, deve essere dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 18 ordin. penit., nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui sopra, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell'unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell'ordine e della disciplina, né, riguardo all'imputato, ragioni giudiziarie.

Sono assorbite le questioni riferite agli ulteriori parametri evocati nell'ordinanza di rimessione.

Per questi motivi

la Corte Costituzionale

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell'unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell'ordine e della disciplina, né, riguardo all'imputato, ragioni giudiziarie.